Matteo se ne stava nascosto dietro l’enorme tronco di una grossa quercia, su una collinetta poco distante dal letto del fiume. Era sgattaiolato fuori dalla capanna di legno e frasche costruita anni prima dal padre dove viveva insieme alla sua famiglia. Due stanze in tutto, una a fungere da zona dove mangiare e l’altra ad ospitare i giacigli in fieno e paglia per dare riposo dopo le lunghe e faticose giornate di lavoro. Erano 6 in tutto, quattro figli più la madre e il padre. Lui, Matteo, era il più piccolo, l’ultimo arrivato, aveva appena otto anni ma ormai era un vero ometto. Portava le pecore al pascolo assieme al fratello di due soli anni più grande, mentre il primogenito dava una mano al padre nella bottega di fabbro e maniscalco sita poco distante dalla casa, sulla stradina che dal villaggio si disperdeva lungo i sentieri che conducevano verso la sterminata campagna. L’unica figlia femmina restava in casa tutto il giorno, aiutando la madre nelle faccende domestiche e nella cura delle galline e dei conigli. Correva l’anno del Signore 410 e Cosenza a quel tempo era niente più che una minuscola comunità composta in prevalenza da pastori stabilitisi lungo le rive di due fiumi, il Crati e il Busento, che garantivano pascoli fertili, pesce abbondante e buona selvaggina. Il villaggio era composto in tutto da non più di una trentina di capanne con al centro la chiesa, unico edificio in muratura della zona. Matteo aveva atteso impaziente quella notte che i suoi familiari se ne andassero a dormire per avventurarsi fuori dalla capanna, ben conscio che se il padre avesse scoperto le sue intenzioni avrebbe di sicuro rimediato le canoniche cinque frustate, punizione che il genitore infliggeva a chi disattendeva le rigide regole imposte. Quella notte, tuttavia, aveva deciso di rischiare. Da una settimana si respirava nel villaggio una strana aria: erano arrivati i forestieri, erano tanti, un vero e proprio esercito, cavalli, carrozze, armature, cose che lui non aveva mai visto! Si erano accampati poco distanti dalle capanne, in una vasta radura sulla sponda opposta del fiume Busento. La notte accendevano i fuochi, lui li sentiva cantare e urlare e da lontano, sporgendosi dalla porta della capanna riusciva a scorgere il bagliore delle fiamme che rischiaravano il buio fino alle prime luci dell’alba. Poi da tre giorni nulla più, non si udirono né canti né grida, solo i fuochi accesi in un lungo silenzio quasi spettrale che incuteva paura. La sera prima, mentre la famiglia cenava a base di carne di capra e formaggio, aveva udito i suoi genitori parlare a voce bassa, il padre aveva sussurrato della morte improvvisa di un re, la madre si era fatta ripetutamente il segno della croce, lui e i fratelli in silenzio a testa bassa avevano continuato a mangiare. Nella sua bottega di fabbro Onorio aveva ricevuto la visita di due stranieri, il giorno prima, che gli avevano chiesto di fornire loro utensili da scavo: lui aveva obbedito all’ordine dandogli i pochi attrezzi che aveva a disposizione, 5 pale e 3 picconi.
La notte non era particolarmente buia, la luna piena illuminava con una luce biancastra tutta la radura sottostante. Il fiume che lo separava dalle tende degli stranieri luccicava al riflesso dei raggi lunari, le placide acque restituivano bagliori argentei dai riflessi metallici. La stagione calda, da poco trascorsa, aveva di molto diminuito la portata dell’acqua, il fiume così impetuoso nella stagione delle piogge era ridotto a poco più di un torrente. Era appena metà settembre ma l’umidità, dovuta in gran parte alla vicinanza del fiume, penetrava nelle ossa e faceva rabbrividire di freddo il piccolo Matteo. Se ne stava accucciato da un paio d’ore sulla collinetta, dietro la grande quercia ad osservare l’accampamento degli stranieri. Notava un generale andirivieni, una situazione di vivace fermento, come se da un momento all’altro dovesse accadere qualcosa di importante. Passò un’altra mezzora quando una carovana di uomini in silenzio iniziò a dirigersi verso il punto esatto dove il fiume Busento andava a congiungersi con il Crati. Senza parlare iniziarono a sollevare delle enormi travi di legno, le posizionarono tra un argine e l’altro lasciando vuoto uno spazio sufficiente a contenere cinque pecore in fila. Matteo non capiva cosa stessero facendo, rimase sbalordito quando vide che l’acqua iniziò per quel breve tratto a percorrere una strada diversa intorno al punto tenuto all’asciutto dalle travi di legno. E poi li vide scavare proprio lì, erano una decina in tutto. Scavavano e si davano un gran da fare, non avvertivano la stanchezza anche perché dall’alto dell’argine altri uomini armati di frecce li sorvegliavano a vista. Trascorsero altre due ore, si era fatto tardi e sarebbe dovuto rientrare ma la curiosità lo teneva bloccato a quell’enorme tronco di quercia, ad osservare l’opera che si stava compiendo sotto i suoi occhi di fanciullo. Ad un tratto gli uomini con le frecce e le lance ordinarono agli altri di fermarsi. Dall’accampamento partì un altro corteo, Matteo poteva distinguere bene la scena per via dei fuochi e della luce della luna. Una quarantina di uomini in fila, muti, col capo chino, e al centro della fila dieci di essi portavano in spalla una lettiga sulla quale stava sdraiato supino un uomo in armatura, con la spada adagiata sul fianco destro. Ne distingueva a mala pena il viso, la folta chioma fluente e la barba rossiccia. Avanzano piano, e ai fianchi del corteo altri uomini a cavallo procedevano a passo lento. Li vide arrivare sul posto dello scavo, calare nella grossa buca dapprima un cavallo, poi gioielli, monili, monete che portarono con 4 grossi carri trainati da buoi. Infine calarono la lettiga con quell’uomo disteso sopra e tutti cominciarono a mormorare un canto sommesso, silenzioso, triste. Matteo iniziò a capire, quello doveva essere il re morto di cui parlava suo padre la sera prima a cena. Senza perdere tempo iniziò a guardarsi intorno e prestò trovò quello che andava cercando: una piccola parte di corteccia staccatasi dalla grossa quercia a cui stava abbracciato da quattro ore. Infilò la mano in tasca e tirò fuori il piccolo coltellino che portava sempre con sé, e inizio a tracciare quello che aveva veduto, il punto esatto dove quell’uomo era stato sepolto. Faceva più freddo ora, ma l’eccitazione per quello di cui era stato testimone non gli faceva avvertire alcun disagio. Vide poi che gli uomini che avevano scavato la buca iniziarono a ricoprire di terra il profondo fosso ora diventato sepolcro e custode di enormi ricchezze, e che dopo aver terminato con l’aiuto di grosse funi trascinarono verso riva le enormi travi di legno utilizzate per deviare il corso del fiume. Il gorgoglio dell’acqua invase in un colpo il tratto provvisoriamente tenuto all’asciutto, e il fiume riprese placidamente a scorrere lungo il tragitto abituale. Ora era davvero tardi, doveva rientrare alla capanna prima che facesse giorno. Fece per alzarsi ma una scena terribile lo costrinse ad accucciarsi nuovamente dietro l’albero. Le gambe gli cedettero quando i suoi occhi videro che gli uomini armati di frecce e lance iniziarono ad uccidere tutti gli altri, quelli che prima avevano deviato il fiume e scavato la fossa. Non riuscì a trattenere le lacrime per l’orrore e la furia che si stava abbattendo implacabile sotto i suoi occhi, prese coraggio, si alzò in piedi, mise in tasca il pezzo di corteccia sul quale aveva tracciato il punto esatto della fossa e scappò via, correndo a perdifiato verso la capanna.
Quando nel 2015 a Cosenza il signor Pilerio Perrelli passò a miglior vita, alla veneranda età di 92 anni, non avendo figli e discendenti diretti visto che le sue tre sorelle erano morte già da un pezzo, ed essendo vedovo da oltre dieci anni, ritenne giusto che il prezioso reperto custodito gelosamente da una vita dovesse finalmente essere portato a conoscenza del mondo. Non fu semplice prendere la decisione, lui quel rotolo di pergamena sul quale era riportato il disegno di una corteccia con impresso un punto ben preciso della confluenza tra Crati e Busento, l’aveva segretamente conservato per tutta la vita dopo averlo rinvenuto, per pura combinazione, in un’antica cassapanca della vecchia casa abitata dai nonni su Corso Telesio. Inizialmente non ne aveva compreso bene il significato, poi si era documentato, aveva approfondito ed era giunto all’unica conclusione possibile: era di sicuro la mappa del tesoro di Alarico. Era stato sul punto di comunicare la sua scoperta più volte, ma poi c’era stata la guerra e i bombardamenti degli Alleati, qualche anno prima il Reich aveva organizzato una spedizione a Cosenza per ritrovare il tesoro e lui, il signor Pilerio, non se l’era sentita di ingigantire il delirio di onnipotenza del Fuhrer. Gli anni a venire di quella storia non se n’era più parlato, come se fosse stata trascinata in un oblio definitivo, come se non interessasse più a nessuno. Lui si era sposato, aveva iniziato a lavorare aprendo una bottega di orologi nel centro storico, poi il boom economico degli anni sessanta, gli anni di piombo, le crisi economiche, il rincoglionimento degli anni novanta e duemila. “A chi vuoi possa interessare una storia di 1.600 anni fa!!!” si era sempre detto, forse più per giustificare la sua reticenza nel doversi spossessare del prezioso reperto che per vera convinzione. Negli ultimi anni di vita, tuttavia, si era piano piano ricreduto: il dibattito su Alarico era tornato prepotentemente di moda e lui, con l’avanzare dell’età ed il pensiero sempre più ricorrente della morte, aveva deciso che si, era giusto che la Storia non venisse cancellata, che si, era giusto premiare chi stava inseguendo un sogno, chi rischiando di apparire ridicolo aveva rimesso al centro dell’attenzione la leggenda del Re Visigoto.
Quando aprirono il suo testamento lessero quanto di seguito riportato: “Il tesoro di Alarico non è una leggenda e io posso dimostrarlo. La mappa con il punto esatto dove scavare è custodita da tre donne molto diverse tra loro che per tutta la mia vita mi sono state sempre vicine. Una è alta e slanciata, costantemente trafelata, non perde un secondo nel compiere le sue quotidiane azioni, sempre di fretta ma mai distratta. La seconda è di poco più bassa, agisce con maggiore lentezza, predilige i primi e si muove con altrettanta sicurezza. La terza donna è completamente diversa, corta e tracagnotta, lenta ma inesorabile nelle sue decisioni, ha le ore contate ma non sembra dolersene. Nella mia vita ho sempre amato i libri e gli animali. Ho adorato Dumas e per questo lascio la mia collezione di preziosi racconti dell’autore francese alla biblioteca civica di Cosenza: abbiatene cura, sono molto antichi. Vi chiedo infine di non abbandonare la mia adorata cagnetta obesa, di non far mancare mai il cibo al gattino Alexandre e di coccolare per quanto possibile il mio vecchio pappagallo Villers ormai avanti negli anni.”
Alla lettura del testamento da parte del notaio Arciboldi, alla presenza del Sindaco quale unico destinatario del lascito in qualità di rappresentante della città di Cosenza, lo stupore si impadronì dei presenti. Il ritrovamento della mappa e del tesoro di Alarico passava per la soluzione di quello strano quesito. Del resto, una scoperta così importante non poteva essere rivelata senza creare un minimo di suspence ed enigma tra i diretti interessati.
Voi, di fronte ad una situazione simile, che soluzione avreste prospettato?