Potremmo definirla la settimana delle epurazioni. Quelle pianificate a tavolino ed eseguite, quelle originate in laboratorio e quelle minacciate e per il momento rinviate.
Partiamo dalle prime. Il post golpe in Turchia si è consumato nel piano restaurativo di Erdogan, che come da previsioni ha usato la mano pesante per accrescere a dismisura il proprio potere e rimodellare pro domo sua la fisionomia politica e amministrativa sulle sponde del Bosforo. Tra purghe e provvedimenti d’urgenza, il nuovo Califfo ottomano ha epurato oltre 60mila turchi, accusati direttamente o di traverso di aver preso parte e sostenuto il fallito (e farsesco) colpo di stato di una settimana fa. Tra i colpiti dagli strali del vecchio/nuovo rais i rettori delle università pubbliche e private, quasi 21mila dipendenti riconducibili a vario titolo al ministero dell’Educazione e altri 20mila insegnanti a cui è stata revocata la licenza per esercitare la professione. A questi vanno aggiunti più di 10mila militari e una cospicua manciata di magistrati, giudici, giornalisti e personalità religiose. Con circa 15mila passaporti revocati e ordini di immediato rimpatrio per studenti e lavoratori sparsi per il mondo. E mentre Amnesty International denuncia la violazione dei diritti civili, Erdogan per non lasciare nulla di incompiuto si è affrettato a dichiarare la sospensione della Convenzione Europea dei Diritti Umani promulgando lo stato di emergenza per tre mesi nel Paese. Minacciando, non soddisfatto, l’intenzione di ripristinare la pena di morte.
L’Europa si limita a qualche diplomatica dichiarazione di principio, facendo attenzione a non sbilanciarsi troppo per evitare di infastidire l’uomo forte di Ankara e mettere a repentaglio i nuovi confini prospettici del mercato europeo, già scosso e incrinato nelle sue vacillanti certezze dalla Brexit.
Gli Stati Uniti non fiatano: del resto dove non c’è petrolio e possibilità di esportare democrazia con l’ausilio di bombe intelligenti e guerre umanitarie perché sporcarsi le mani?
La Russia non si espone, ha altro a cui pensare. E qui veniamo alle epurazioni in provetta. Perché a una quindicina di giorni dallo start delle Olimpiadi brasiliane, il Tribunale dello Sport di Losanna ha rigettato il ricorso della squadra di atletica russa che, causa vicenda doping di Stato, non potrà partecipare (salvo diversa decisione del Comitato Olimpico Internazionale) ai giochi di Rio. Epurazioni scaturite, in base a quanto evidenziato dal rapporto della Wada (l’agenzia mondiale antidoping), dall’uso continuato negli anni di sostanze proibite che hanno alterato le prestazioni di gran parte degli atleti russi nelle ultime competizioni internazionali (Olimpiadi di Londra 2012, Mondiali di Atletica del 2013 a Mosca, Olimpiadi invernali a Sochi nel 2014 e Mondiali di nuoto a Kazan l’anno scorso). E dunque, dopo il boicottaggio americano del 1980 alle Olimpiadi di Mosca e quello sovietico del 1984 ai giochi di Los Angeles, si va profilando un’altra edizione olimpica priva dei rappresentanti del Cremlino.
La terza epurazione, quella in divenire, riguarda da vicino la campagna presidenziale negli Stati Uniti. Uno dei più stretti collaboratori del candidato repubblicano Donald Trump ha addirittura minacciato la rivale democratica Hillary Clinton di alto tradimento invocando il plotone d’esecuzione e la fucilazione; accusando l’ex first lady di gravi responsabilità per la vicenda dell’attacco all’ambasciata Usa di Bengasi del 2012 e per aver inviato, all’epoca in cui essa rivestiva la carica di Segretario di Stato americano, informazioni sensibili dalla sua casella personale di posta elettronica.
Epurazioni in Turchia, epurazioni olimpioniche, epurazioni elettorali.
Il mondo tace e trattiene il fiato, senza tuttavia distogliere lo sguardo e l’attenzione dai display degli smartphone, alla disperata ricerca di pokemon da catturare e uccidere. Provando a epurare anche quelli…