Qualche giorno fa ho ricevuto un graditissimo regalo. Un vecchio orologio a pendolo appartenuto ad un mio zio sacerdote scomparso diversi anni fa.
Me ne ha fatto dono la mia nonna paterna quasi centenaria, sapendo quanto tenessi a quell’oggetto sin da bambino visto il forte legame che avevo con lo zio, parroco di campagna e persona buona e generosa. Nella fase della mia adolescenza, quando il mio ateismo prendeva forma e consistenza, ricordo le lunghe chiacchierate a discutere di argomenti profondi e impegnativi, io a difendere le mie ancora approssimative convinzioni, lui a sviluppare le sue rispettabilissime teorie spirituali che ne avevano con assoluta e rigorosa coerenza caratterizzato l’intero percorso di vita. Discutevamo molto, di politica e di spiritualità, di trascendenza e di materialismo. Quello che mi colpiva, all’epoca come adesso ripensandoci con nostalgia, era il suo profondo rispetto verso le mie argomentazioni, quel modo di fare e di ragionare con pacatezza, leggerezza e serietà. Ho appeso quel vecchio orologio alla parete del mio salotto, e rimettendolo in funzione mi sono lasciato ipnotizzare dal movimento regolare del pendolo, dai rintocchi alla mezza e da quelli a ogni ora, da quel lento e inesorabile oscillare che scandisce l’incedere del tempo. Sul foglio di garanzia, ancora intatto, è riportata la data di acquisto, 23 settembre 1971. A quell’epoca non avevo ancora neppure compiuto il mio primo anno di vita. Quanto tempo, quanti minuti, quante ore, quante oscillazioni in quasi mezzo secolo ha scandito quell’orologio, quanta esistenza è passata attraverso quelle lancette, quanti eventi si sono susseguiti nel mondo e quante volte qualcuno ha guardato su quel quadrante per fissare un momento, per imprimere nella propria memoria un fatto o un episodio. La Guerra Fredda, la caduta del Muro, gli anni di piombo, l’elezione dei Papi, quelle dei Presidenti, i grandi eventi sportivi, le scelte epocali che soprattutto nel Novecento hanno inciso nelle nostre vite. Il pendolo è un oggetto “abitudinario”, costretto da meccanismi immodificabili a percorrere sempre la stessa traiettoria. Come il più delle volte sono “abitudinarie” le nostre vite, senza rendercene troppo conto.
Infatti ho deciso che la parola di questa settimana è “abitudine”.
E’ “abitudine” quella che tendono a imporre i terroristi dell’Isis, le cui stragi a loro più o meno riconducibili tra la laica e illuminista Francia e la Baviera, ripropongono con terrificante barbarie e orrore ciò che da anni si verifica quotidianamente in Medio Oriente, in Iraq, in Iran, in Siria e poi più a est in Afghanistan e in Pakistan, e da qualche anno in Nord Africa. Non è una guerra di religione, piuttosto uno scontro di civiltà, inteso come il tentativo a loro modo moralizzatore di esportare un modello culturale e di costume. Più o meno quello che nel corso della storia è stato fatto, a ruoli invertiti, quando la parola d’ordine era esportare democrazia e McDonalds in territori e mercati ancora vergini e distanti per stili e tradizioni. Si scrive globalizzazione, si legge bombe intelligenti. Adesso, tra un parroco sgozzato in un piccolo paesino francese e assalti all’arma bianca con coltello e machete in Germania, l’obiettivo è quello di esportare “l’abitudine” al terrore, alla paura, al contatto quotidiano con la morte. Il tutto a comoda porta di mano per noi, cittadini europei, già colpevolmente assuefatti ad altre disastrose “abitudini” che nel tempo ci hanno convinti a considerare ineluttabili alcuni concetti. La povertà, la ricchezza di pochi, il decadentismo della politica, il malaffare, la corruzione, la precarietà dei servizi, la crisi e lo smantellamento di garanzie e tutele sociali, la disoccupazione strutturale di massa.
E allora, per concentrarci su cose a noi più vicine, non ci spieghiamo perché l’Università della Calabria si attesta, secondo quanto riportato dal Censis pochi giorni fa, tra i primi tre atenei d’Italia e, contestualmente, questa terra continua a lacerarsi tra redditi da fame e mancanza di lavoro. O forse ce lo spieghiamo benissimo, ma “l’abitudine” a questo stato di cose rende superfluo ogni tipo di approfondimento supplementare. Perché ormai è “abitudine” studiare e formarsi, generare eccellenze in un lembo sperduto del profondo sud per poi trasferire ad altre latitudini conoscenze e capacità.
“Abitudini”. Ancora cattive “abitudini”.
Di sicuro non ci abitueremo mai alle punture delle zanzare. Ma in questo caso è la scienza a correre in nostro soccorso, visto che uno studio di alcuni ricercatori svedesi sembrerebbe aver appurato che l’odore delle galline è un antidoto naturale contro i fastidiosi insetti. Sarebbe sufficiente, infatti, tenere nella stanza da letto o quanto meno in casa una gallina per ridurre le punture di zanzare addirittura del 90%. Rimedio da tenere in considerazione, salvo il fatto che l’odore emanato dalle ovaiole insieme al resto degli effetti collaterali potrebbe non risultare gradevole a tanti di noi. Oltre al fatto, tutt’altro che trascurabile, che essendo l’animale in questione intelligente per definizione di “pozzettiana” memoria, molti (io per primo) potrebbero incorrere nella spiacevole patologia del complesso d’inferiorità.
Alla fine, tuttavia, la soluzione si trova sempre. Basta “abituarsi”…