C’è stato un tempo in cui per fidanzarci facevamo la “dichiarazione”. Ci avevano insegnato così.
Il percorso a parole era semplice, nei fatti un po’ meno. Ti presentano una ragazza, inizi a frequentarla insieme alla comitiva di amici, provi a conoscerla meglio, cerchi di conquistarla con la simpatia e le buone maniere e poi, quando il momento ti sembra propizio, ti esponi. Anzi, ti lanci. Con la “dichiarazione”, quella composta da 5 parole: “Ti vuoi fidanzare con me?”. L’atto decisivo si concretizzava spesso in occasione di una di quelle feste di compleanno tra compagni di scuola, dove si aspettava con una certa ansia che sul giradischi iniziasse a girare il lento. E quando tutto filava per il verso giusto, e non era sempre scontato che accadesse, pur essendo felice e orgoglioso ti accorgevi che ancora il grosso dovevi farlo, che non era automatico tenerla subito per mano o abbracciarla, meno che mai osare baciarla.
Altri tempi, ma nemmeno poi tanto lontani. Parliamo di appena trent’anni fa, quando il vento del ’68 era già passato da un pezzo e aveva sedimentato le sue conquiste, l’indipendenza femminile, il diritto alla parità dei sessi, l’emancipazione dei costumi. Oggi, a ricordare quei momenti, quei particolari, sembra di ragionare su situazioni e comportamenti da epoca giurassica. Il tempo ha ingannato tutto e tutti, come avviene di sovente. E assieme all’equivoco sorto intorno alla legittima e invocata libertà sessuale, si è oltrepassato il limite del buon senso e del buon gusto. Calpestando diritti e decenza, fino a sconfinare nella violenza e nel degrado. La televisione a buon mercato ha sdoganato ogni tipo di pudore, ha legittimato ogni tipo di comportamento, ha sacramentato un nuovo codice esistenziale che considera adeguati eccessi e stravaganze. Fino a premiarli come elementi di valore, di unicità, di libera espressione del proprio carattere e del proprio modo di essere. Arrivando addirittura ad esaltarne le esibizioni, etichettate come esempio di sensualità in un caso e di virilità nell’altro. Salvo poi, ipocritamente, piangerne in maniera tardiva le conseguenze più estreme.
Lo stupro di massa, perpetuato negli anni, ai danni di una bambina in provincia di Reggio Calabria ha ribaltato il concetto di vittima e carnefice, in una giostra devastante di interscambiabilità concettuale. Il suicidio della ragazza napoletana, vittima della rete che commentava eccitata le sue gesta erotiche riprese in alcuni video privati, ha confermato l’inclinazione perversa e voyeuristica del maschio italico dominante. La violenza carnale subita dalla non ancora maggiorenne ragazza di Rimini, stuprata in stato di ubriachezza nei bagni di una discoteca e ripresa dai telefonini delle amiche che ne hanno divulgato il video su WhatsApp, sancisce la percezione di normalità di fronte all’evento, di dissennata eccitazione e divertita complicità.
Il sesso è diventato spettacolo da pochi spiccioli, occasione di becero e ostentato esibizionismo. Fino all’apologia dell’assurdo, quando cioè degenera in tragedia, femminicidio, suicidio, violenza carnale, abuso. Tuttavia prevale sotterraneo una sorta di atteggiamento fatalista, quasi come si trattasse di effetti collaterali. Il prezzo da pagare per continuare ad indossare abiti sempre più succinti, a condurre esistenze lascive perpetuando atteggiamenti talvolta provocatori e ai limiti della decenza. La normalità è diventata esaltare l’aspetto fisico conturbante e le capacità mascoline da predatore. Perché in una società malata il declino dei costumi produce dapprima squallore e poi decadenza, sublimando stravaganze e sconcezze elargite a mo’ di esempio che producono, purtroppo, emulazioni di massa. Tutto fa spettacolo e non indigna, dall’assenza di biancheria intima disinvoltamente esibita su passerelle culturali fino alla simulazione di amplessi in pose di cattivo gusto da parte di sguaiate rockstar internazionali. I concetti e i contenuti passano in secondo piano, di messaggi manco a parlarne, prevale il sesso declinato in gesti e atteggiamenti. Siamo diventati una società ossessionata dal sesso nelle sue manifestazioni più disparate.
Con ciò non si vuole giustificare alcun comportamento violento, figuriamoci, ma piuttosto provare a decifrare la deriva etica di un modello sociale quasi ormai privo di freni inibitori. Se questo è il frutto della modernità, della parità di genere o dell’emancipazione tout court, allora preferisco il mondo di prima, quello dove pudore e compostezza si erigevano a modelli educativi di comportamento. Quando il sesso era vissuto come qualcosa di intimo da non sbandierare. Dove il rispetto prevaleva sia dal punto di vista morale che da quello estetico. Perché, diciamo la verità, se oggi ti fissi a guardare qualcuna che con naturalezza va in giro mezza nuda, come minimo vieni etichettato come maniaco sessuale. E basta un bicchiere di troppo o l’azzardo di un gioco condiviso per scatenare perversioni e oscenità che nei casi più estremi degradano in tragedie.
Il fraintendimento sulla libertà dei costumi ha generato mostri. Vittime e carnefici. Violando corpi e menti, stuprando coscienze e sensibilità. Superando, appunto, il confine del buon gusto e del buon senso. Trascinando in questa deriva ragazzine, adolescenti e chiunque abbia qualcosa da mostrare dietro il paravento del “corpo è mio e ne faccio quello che voglio”.
Probabilmente sarò nostalgico o vetero, ma rimpiango i tempi della “dichiarazione”: in fondo, come canta Max Gazzè, è sempre “il solito sesso”. O no?