Nell’aggirarmi in una notte oscura, solo a tratti illuminata da una luna pallida tra nuvole a strati, su sentieri deserti spazzati da un vento sostenuto che scuoteva i rami rinsecchiti di enormi querce secolari, le cui foglie ingiallite si arrendevano vinte agli impulsi dell’incipiente autunno, accompagnato in lontananza dal lugubre ululato di lupi irrequieti, scorsi avvolta da una tenue nebbiolina la figura metafisica di una donna. Ella danzava e conturbante si muoveva al suono di una melodia che non saprei descrivere né indicarne la provenienza, un canto leggero e inquietante, una nenia quasi demoniaca che sospendeva il tempo e alterava i confini dello spazio. Avevo paura, il cuore rimbombava nel petto, lo stomaco era stretto in una morsa talmente tenace che produceva una contrazione feroce nei muscoli dell’addome. Sudato provai dapprima a indietreggiare, poi sospinto da una forza misteriosa e dalla morbosa curiosità invertii la direzione e iniziai ad avvicinarmi, con titubante circospezione e ansia di mistero. Quando la distanza che mi separava da lei fu di una decina di metri, potei osservarla meglio. La donna non aveva volto, era ricoperta da un abito di seta bianca trasparente e sottile che lasciava intravedere, senza equivoci di sorta, le sue nudità, e intorno alla vita faceva ritmicamente roteare a mo’ di hula hoop i cinque cerchi olimpici. Attaccata al suo seno scarno e di un pallore innaturale, una lupa poppava latte materno di colore rosso come vino o sangue. Terrorizzato feci per scappare ma non mi riuscì di muovere un passo verso l’indietro, nella direzione da cui ero sopraggiunto. Non ricordavo neppure come fossi capitato in quel posto, a quell’ora e in quella dimensione. Era come se la donna mi stesse calamitando a sé, come se quell’impulso dal quale non intravedevo vie di fuga aumentasse d’intensità man mano che lentamente, contro ogni mio volere, continuavo ad avvicinarmi. In quella strada priva di anime, in piena notte e con quel vento infernale che sollevava foglie gialle e cartacce, avvertivo l’angoscia del pericolo e l’eccitazione del terrore, l’ululato prorompente dei lupi quasi a volermi frenare dal mio incedere lento, il verso di indefiniti uccelli notturni appollaiati sui rami spettrali degli alberi la cui ombra proiettava, alla scarna luce metallica della luna, sinistri disegni sul selciato. Improvvisamente proruppe sulla scena, frapponendosi tra me e lei, un tizio vestito da Dante che con marcato accento toscano le chiedeva estasiato di continuare a muoversi e di restare serena e….e poi improvvisamente la lupa azzannò il seno che stava poppando e un fiotto di sangue schizzò impietoso sotto i Raggi della luna, e il Matt(e)o fiorentino coprì con la sua sguaiata risata la cantilena musicale in sottofondo e…”serena….stai serena” sussurrava…e ancora “Virgilio…no…Virginia…” e subito dopo….
Mi svegliai di soprassalto, agitato e inquieto per quell’incubo strano che solo l’inconscio era riuscito a partorire. Tutt’altro che spaventato, anzi al contrario piuttosto soddisfatto per l’assurdo cortometraggio in prima visione cui avevo avuto il privilegio di assistere come unico spettatore non pagante. E del quale detenevo il copyright, almeno fino a quando la tecnologia non escogiterà il sistema per rendere automaticamente pubblici i nostri sogni e i nostri incubi, le nostre emozioni, i segreti più reconditi, le sensazioni che proviamo. Anche contro il nostro volere, a totale dispetto della “privacy”. In buona parte a questo ci siamo già arrivati, tutto ormai è di dominio pubblico, dalle foto di Diletta Leotta al rischio di vederci sottratti i nostri dati sensibili da un attacco hacker come accaduto in settimana a mezzo milioni di utenti di Yahoo e persino al mega finanziere Soros. L’umanità galoppa verso l’annullamento di ogni riserbo, dalla nuova app di Google che archivia le chat fino alla cibernetica possibilità di farci impiantare dei microchip sottocutanei che la scienza suggerisce allo scopo di fornire un valido supporto in termini di sicurezza, ma che di fatto annulla ogni tipo di riservatezza e “privacy”.
Dunque, che senso ha, oggi, parlare di “privacy”? Nell’era dei social network, delle scatole nere istallate dalle compagnie assicuratrici nelle nostre auto, delle telecamere posizionate in ogni angolo delle città e davanti a diversi esercizi commerciali, dei droni che sorvegliano a nostra insaputa ogni singolo movimento, delle schede telefoniche intercettate e delle carte di credito monitorate, tutto è puntigliosamente schedato e proposto al miglior offerente. Perché possedere questi dati significa mettere le mani su una miniera d’oro, perché attraverso queste informazioni si conoscono abitudini e tendenze di spesa indirizzando produzioni industriali e nuove modalità di consumo. Nelle nostre esistenze in gran parte virtuali siamo catapultati su palcoscenici pubblici privi di ogni minima parvenza di mediazione, esposti alla feroce sottocultura scenografica della spettacolarizzazione della vita, dei suoi drammi, delle sue ricercate tendenze esibizionistiche. Sono dell’idea che il concetto di “privacy” andrebbe rimodellato, ridefinito e declinato al contrario: “è fatto divieto a chiunque celare informazioni riservate e occultare coscienze e stati d’animo; lo Stato promuove e incoraggia la totale e incontrollata diffusione dei cazzi della gente; la riservatezza è reato”. Molto più coerente e in linea con la condotta che surrettiziamente ci viene imposta e propinata. Infatti il trucco sta proprio qui, ovvero farci illudere delle comodità indotte da tutto ciò che è virtuale (moneta, sensi, tecnologia e scienza) salvo poi riversarne i contenuti in forma pubblica e tangibile.
Ho letto che alcuni ricercatori statunitensi stanno sperimentando un nuovo sistema di WiFi in grado di percepire le emozioni degli utenti con un grado di precisione intorno all’87%: il sistema sarà capace di stabilire se chi utilizza una app o legge un articolo on line è felice, arrabbiato, deluso o depresso. Una genialata, direi, che non tarderà a produrre i suoi straordinari effetti benefici sulla vita delle persone.
A questo punto non ci resta che aspettare il decodificatore dei sogni, in modo che ogni mattina avremo la possibilità di guardare sullo schermo del televisore, sul monitor del pc o sul display del telefonino cosa ci ha riservato il nostro inconscio durante la notte appena trascorsa. Probabilmente il tutto sarà anticipato dalla preservante formula “la visione è consigliata a un pubblico di soli adulti, minori sotto i 12 anni accompagnati”. Soprattutto nel caso in cui l’onirica visione abbia avuto come protagonista Diletta Leotta. E siccome i sogni, si sa, son desideri…buona visione ai telespettatori.