Nelle serate di libertà, quando tra amici sopra i quaranta ci ritroviamo davanti a una Guinnes a discutere di calcio, donne e politica, sembra di rivivere quei momenti di leggerezza che caratterizzavano gli anni spensierati della gioventù. Quando speranze e sogni andavano a braccetto con progetti strampalati e propositi assurdi. Quando bastava avere una macchina a disposizione per immaginare nuovi spazi da conquistare, nuovi posti da scoprire e imprese più o meno ardite da collezionare.
Di quel tempo è rimasto poco, come purtroppo è ovvio che sia. Le responsabilità, le conseguenti preoccupazioni e un insano realismo, hanno cancellato la spensieratezza e la voglia di sognare, modificando nel profondo quello spirito che la vita consegna inizialmente in quantità massiccia e di cui, con graduale e ineffabile precisione, essa stessa si riappropria con l’avanzare dell’età adulta. Come in un beffardo e cinico gioco di società, dove passare dal “via” al termine di ogni giro d’età, comporta la dispersione di piccole dosi di incoscienza. La candela della goliardia consuma cera vitale anno dopo anno.
Brutta bestia la maturità, considerata elemento fondante di una società che di fatto inaridisce l’essenza stessa della vita. Si diventa adulti e responsabili quando si smette di giocare, di ironizzare, di esprimere liberamente quella sana follia che ognuno di noi possiede e reprime. La verità è che prendiamo tutto maledettamente sul serio: noi stessi, il lavoro, l’educazione e l’attività scolastica dei nostri figli, una vignetta satirica, persino quei momenti di relax che riusciamo a ritagliarci. Diventa seria la palestra, la corsetta giornaliera, il programma in tv, la partita di calcio. Gli obiettivi sono la carriera, il successo e la perfezione. Siamo legati a stereotipi imposti da un modello di società che mal sopporta ogni minima divagazione sul tema. E ci lasciamo condizionare da opinioni il più delle volte funzionali a un modo grigio e noioso di interpretare l’esistenza, individui impostati e costretti da regole rigide senza valutare contesti e situazioni, all’insegna del più becero conformismo dettato da parole d’ordine e luoghi comuni consunti.
Qualche anno fa, era d’estate, mi trovavo in villeggiatura in un hotel fuori regione. Una notte, saranno state le due, mogli e figli già in camera a riposare, ci ritrovammo in cinque a sorseggiare un cocktail ai tavolini del bar esterno della struttura turistica, oziando nell’attesa di un sonno che faceva fatica a palesarsi. Era l’anti vigilia di Ferragosto, e per la serata successiva i ragazzi dell’animazione avevano preannunciato uno spettacolo a sorpresa con un famoso personaggio della tv, senza rivelarne l’identità. Fu mentre gustavamo il nostro “mojito” che comparve il proprietario in compagnia dell’ospite d’onore. In effetti, si trattava di un noto comico nazionale, molto apprezzato per le sue gag nei vari programmi di varietà sui canali generalisti. Trascorremmo altro tempo in sua compagnia, discutendo di calcio, donne e politica, argomenti trattati nella versione adatta ad un pubblico maschile e, per come il famoso volto tv ebbe a declinarli, anche adulto. Se rivelassi il nome del personaggio e le sue narrazioni, battute e sconcezze varie, mi beccherei una querela per diffamazione e ne intaccherei pesantemente l’immagine. Infatti non ci penso minimamente. Perché, immedesimandomi, se qualcuno registrasse quello che dico nelle serate di libertà che trascorro con gli amici, rischierei qualche multa salata, il pubblico ludibrio, infangherei irrimediabilmente la mia persona, sarei pesantemente giudicato nell’ambiente di lavoro e via continuando di questo passo. Esiste una spaccatura tra quello che siamo in pubblico, nella versione presentabile tanto cara alla nostra società, e quello che riusciamo a diventare tornando adolescenti per qualche ora, in compagnia degli amici e di fronte a una birra. Che c’è da meravigliarsi? O da scandalizzarsi? Anzi, per fortuna, aggiungo, che ancora ci è rimasto qualche barlume di spensieratezza. O di folle naturalezza nei comportamenti.
Bertrand Russel, filosofo gallese del secolo scorso, sosteneva che: “Abbiamo due tipi di morale fianco a fianco: una che predichiamo, ma non pratichiamo, e un’altra che pratichiamo, ma di rado predichiamo”. Che detto con parole più dirette significa ipocrisia. Conosco gente che va tutte le domeniche in chiesa e poi condanna violentemente gli immigrati, altri che si professano animalisti e ecologisti ma “mai un cane in casa” e di nascosto gettano il sacchetto dell’immondizia dove capita per strada. Ci sono i salutisti che mangiano al McDonald’s e i progressisti che votano Sì al referendum. Quelli delle pari opportunità e della valorizzazione del ruolo delle donne, ma poi a casa ciabatte, poltrona e tv e “quando è pronta la cena, che ho fame?”. Quelli a favore della famiglia tradizionale e del “fertility”, che di mogli ne hanno avute almeno un paio e di amanti manco a contarle, quelli che “mai a favore dell’aborto” e poi abbandonano o picchiano i figli. Quelli che “il calcio è l’oppio della nostra società” e spendono una fortuna alle macchinette rubasoldi. I tipi che “la politica è solo un malaffare”, scordandosi di aver traccheggiato per anni in questo o quel consesso elettivo. E ora volete farmi credere che, alla stregua dell’America puritana e bacchettona, dovremmo indignarci perché Donald Trump vent’anni fa, in una cena tra amici, si è espresso con epiteti volgari nei confronti di qualche soubrette? Non parlo dell’accusa di molestie, bensì di vere e proprie chiacchiere da bar. Ma mi faccia il piacere, avrebbe detto Totò!!!
Fuor di dubbio che, se fossi stato cittadino statunitense, mai mi sarebbe venuto in mente di esprimere il mio consenso a Trump, perché le mie scelte sarebbero state dettate da ben altro, e non serve nemmeno elencarne le ragioni. In tutta onestà, avrei avuto difficoltà anche a votare per la Clinton, infatti mi sarei posizionato in quel 50% di astensionisti che diserta le urne per mancanza di rappresentanza. Come ormai faccio da anni anche in Italia.
Di certo non sopporto il perbenismo peloso, l’indignazione di facciata, l’incoerenza diffusa e l’ipocrisia eletta a stile imperturbabile di vita e condotta morale. Anche perché, in caso contrario, rischierei molto ipocritamente il biasimo generalizzato.