C’è un’attività nella quale noi italiani eccelliamo per tempismo e spregiudicatezza: quando si tratta di colpevolizzare, di demonizzare, di individuare il mostro da lapidare non perdiamo tempo. E ci importa poco provare a decifrare il fenomeno, sviluppare un minimo di analisi per capire le ragioni, anche quelle più becere, che hanno indotto uno o più individui ad agire in un determinato modo. Ci riscopriamo spietati, forcaioli, giustizialisti. Spesso lo facciamo senza chiederci se quel gesto, che consideriamo isolato e per il quale mostriamo tutta la nostra candida indignazione, sia piuttosto il portato di un atteggiamento che ormai ha permeato in gran parte la società nella quale viviamo; se per caso non ha già irrimediabilmente intaccato in larga parte il debole tessuto socio-antropologico nel quale sguazziamo ogni santo giorno. Siamo bravissimi a scaricare responsabilità, a prendere le dovute distanze, a illuderci nel ghettizzare comportamenti che, purtroppo, hanno preso largamente il sopravvento nella nostra pseudo società civile. Comodo valutare come isolate azioni esecrabili, facile e consolatorio individuare piccole entità colpevoli, autoassolutorio tirarci “pilatescamente” indietro. Ma noi siamo i buoni, quelli che stanno dalla parte giusta, quelli che dispongono degli strumenti culturali che mai favorirebbero situazioni di degrado ed emarginazione. E gli altri, quelli cattivi che si macchiano di colpe spregevoli e deprecabili, sono una minoranza da condannare, da estirpare con forza, da biasimare. Ma noi, quelli buoni, chi siamo in realtà? E, soprattutto, quanti siamo? Siamo maggioranza o minoranza? Siamo davvero in prevalenza quelli immuni dal virus del razzismo e della discriminazione verso lo straniero, il diverso, l’immigrato?
I fatti vergognosi di Goro, hanno giustamente scatenato l’ondata di rabbia dell’opinione pubblica verso una manciata di casalinghe e pescatori, colpevoli di aver innalzato le barricate per impedire a una dozzina di immigrate di alloggiare in un ostello presente nel piccolo centro del ferrarese. Legittimo, per carità, mostrare indignazione e esprimere ferma condanna per l’episodio. Ma ci siamo chiesti se, per caso, quello che è accaduto a Goro non sia lo specchio fedele di un Paese che ha da tempo smarrito le coordinate per valutare con umana lucidità le emergenze che la società globalizzata ci impone di affrontare? Quanti piccoli o grandi comuni della penisola, ad eccezione di Riace, si sarebbero comportati diversamente? Troviamo rassicurante circoscrivere l’episodio in uno spazio ristretto e controllato, ma, temo, la situazione sia molto più articolata e complessa di come ci illudiamo possa essere. Negli uffici, nei discorsi da bar, nelle scuole, nei punti di ritrovo, senza distinzione alcuna tra età, classi sociali e ceti, il vulnus xenofobo ha da tempo disseminato i suoi pericolosi germi. Quando in maniera diretta ed esplicita come a Goro, quando condito da qualche perniciosa premessa del tipo: “Io non sono razzista, ma…”, quando deflagrante come nel caso dell’insegnante di Venezia e delle sue deliranti invettive sui social, quando nel caso più soft e non meno grave di tutte le battute ordinarie, i distinguo e le prese di distanza verso africani, musulmani o rumeni.
Ragionando con l’accetta, se si esclude un 20% tra volontari, militanti di sinistra e veri uomini di fede, il resto della popolazione oscilla tra il picco estremo del pensiero razzista e la versione più edulcorata, attraversando le classiche mille sfumature di grigio non meno inquietanti. Del resto è sufficiente analizzare le intenzioni di voto politico del Paese per avere un’idea poco rassicurante della situazione attuale. Tra la destra classica, parlamentare e non, i movimenti estremisti che si rifanno al fascismo, la Lega, l’interclassismo culturale dei 5stelle, l’ambiguità dei Ds e i distinguo dei centristi, rimangono in pochi a esprimere senza se e senza ma il proprio incondizionato sostegno verso chi fugge da situazioni di guerra e miseria. Siamo ancora convinti che Goro sia un’eccezione? Che bastino le parole di facciata di qualche politico o del Ministro degli Interni Alfano (???) a circoscrivere l’episodio e rasserenare gli animi? E’ reale e sincera la condanna dell’opinione pubblica? Siamo certi che Goro rappresenti un’anomalia nazionale, un piccolo cortocircuito nel democratico sentire diffuso? E quelli che a Goro protestavano, erano tutti pericolosi affiliati a Forza Nuova? In quanti altri comuni, tanta gente si comporterebbe alla stessa maniera? In Ungheria hanno innalzato un muro anti-immigrati perché non accettano le quote per i rifugiati stabilite dall’UE, che nella fattispecie assegna al Paese magiaro “l’insostenibile” numero di 1.500 profughi!!! A Napoli, di contro, i militanti di “Refugees Welcome”, nelle stesse ore, esibivano uno striscione di accoglienza verso gli immigrati: in quanti napoletani la pensano allo stesso modo? Ho sinceramente paura che il “sonno della ragione”, in questa fase storica priva di anticorpi sociali, abbia calato le sue nebbie obnubilanti sulle menti di troppi; menti offuscate da principi distorti, alimentate da immotivate paure sparse con cinica sapienza, fuorviate dal timore di perdere il poco e il nulla che il modello capitalista concede a mo’ di elemosina a coloro che si arrabattano quotidianamente per sbarcare il lunario. Il prodotto di tanta violenza verbale e di ingiustificati diffusi allarmismi, di pericolose contaminazioni religiose e razziali, di invasioni sbandierate come imminenti e devastanti, è sotto gli occhi di tutti. Goro rappresenta semplicemente l’episodio del momento, quello da condannare restando comodamente seduti in poltrona dopo aver lautamente cenato. Conosco personalmente tanta pia gente di chiesa che alla parola “migranti” arriccia il naso e storce la bocca, paventando la peggiore delle sciagure in spregio all’umano sentimento cristiano e religioso. A Goro, come in tutte le altre città e paesini italiani, quelli che fanno le barricate o sarebbero pronti a farle, prendono la comunione la domenica a messa? Io dico di sì, e la cosa non mi meraviglia affatto.
L’anno scorso, in occasione del cenone di Natale, si è unito alla mia famiglia un ragazzino etiope di diciannove anni, Hayoub, invitato da mia cognata che svolge l’attività di volontaria presso la Croce Rossa. Il ragazzino era emozionato e felice, timido e educatissimo. Abbiamo parlato delle sue vicissitudini, di calcio (mi ha confidato, credo per “captatio benevolentiae”, di essere tifoso della Juventus), e alla mia domanda su cosa ne pensasse degli italiani, Hayoub ci ha pensato un attimo, poi con un sorriso furbetto dietro il quale si nascondeva, forse, il concetto della locuzione latina intuita dal sottoscritto sulla dirimente questione calcistica, mi ha risposto: “Italiani, brava gente…”