Nostalgia canaglia di occupazioni novembrine

Qualche giorno fa mio figlio, che frequenta il secondo anno di ragioneria, ha preso parte alla prima manifestazione studentesca della sua vita. L’occasione è stata fornita dal presidio di protesta, organizzato dagli studenti della gioventù comunista delle scuole medie superiori, contro il provvedimento governativo cosiddetto di “alternanza scuola-lavoro” che favorisce “esperienze professionali” per ragazze e ragazzi in età scolare. In altre parole, molto più realisticamente, in virtù di un protocollo d’intesa tra il MIUR e alcune multinazionali tra cui il McDonald’s, queste brevi parentesi nelle aziende accreditate dal Ministero si traducono per gli studenti in periodi di lavoro sottopagato, con orari flessibili, nonché nell’esercizio di mansioni ampie e eterogenee per lo più finalizzate a coprire vuoti di organico a basso costo in periodi particolari dell’anno. Sostanzialmente, precarizzazione e sfruttamento legalizzato. Oltre a favorire, come si diceva una volta, una pesante selezione di classe che penalizza coloro i quali non hanno la fortuna di poter contare su genitori in grado di sostenere, in prospettiva, il pesante fardello dei costi di istruzione universitari. Difatti, saranno per lo più i giovani delle famiglie meno privilegiate ad avvalersi della misura, sperimentando sin da subito, inconsapevolmente, quello che sarà un futuro all’insegna della precarietà e della flessibilità.

Inutile dire che sono stato felice che mio figlio abbia autonomamente deciso di partecipare all’iniziativa di protesta, dopo che nei giorni precedenti ci eravamo confrontati sul significato politico e sociale della manifestazione. L’unica nota stonata è stata dovuta dalla scarsa partecipazione all’evento da parte degli studenti, in tutto non più di una ventina (dieci per la Questura). Sono cambiati i tempi, e le cause vanno ricercate nella profonda destrutturazione culturale e partecipativa di cui le giovani generazioni sono state fatte oggetto negli ultimi quindici/venti anni. Una volta lo chiamavamo riflusso, oggi è purtroppo qualcosa di più strutturale. Ripensavo a cosa rappresentava ai miei tempi l’autunno, il mese di novembre. Scioperi di massa, manifestazioni, occupazioni scolastiche, volantinaggi e megafoni, assemblee e discussioni plenarie. Cosa è rimasto, oggi, nell’epoca di internet, degli smartphone, della globalizzazione tecnologica? Direi nulla. Sull’argomento, fonte per me di disagio, smarrimento, nostalgia e inquietudine, non ho trovato di meglio da fare che confrontarmi con un tizio che incontro ogni mattina nello specchio del mio bagno.

“Cosa c’è che non va? Cosa ti rende così nostalgicamente irrequieto?”

“Nulla…è che, forse, in questo mondo così distratto verso le cose reali e attratto dal virtuale, non mi ci trovo più”.

“Te lo dico io cosa c’è! Sei sempre il solito! Ai tuoi tempi vi lamentavate che le scuole erano inagibili, fatiscenti, senza riscaldamenti, privi di palestra…occupavate per un mese intero e organizzavate manifestazioni e scioperi, rivendicando il diritto allo studio. E ora che tuo figlio ne frequenta una che somiglia ad un college inglese, non ti sta più bene perché, venendo a mancare le ragioni per riempire di contenuti la protesta, manca la protesta! Sei un incontentabile che vive di contraddizioni”.

“Non è così, e lo sai… è che questa autonomia scolastica ha distrutto quel tessuto unitario che amalgamava la protesta, rendendola omogenea. Un grande inganno utilizzato per disgregare e disperdere. E’ vero, continuano a resistere i grandi temi, le grandi battaglie, la guerra, la povertà, l’iniqua distribuzione delle ricchezze…ma è tutto sterilizzato da un sistema che assopisce le coscienze grazie all’opera distruttiva dei mezzi d’informazione di massa. Mentre le questioni locali sono state parcellizzate, atomizzate dai singoli istituti scolastici indipendenti; non esiste più il terreno comune sulle problematiche quotidiane, e quindi…”.

“E quindi prima protestavate per avere scuole efficienti e strutture adeguate, e ora che gran parte degli edifici hanno palestre e riscaldamenti, biblioteche e campi di calcetto, non ti sta bene perché viene a mancare l’elemento in grado di formare coscienze rivoluzionarie. Sei dicotomico e anche un po’ paradossale”.

“Forse. Eppure è innegabile che oggi, pur vivendo in una società che si caratterizza per disuguaglianza e privilegi ancor più massicciamente presenti di ieri, le proteste degli studenti sono meno articolate e molto più frammentate. Quando rivendicavamo strutture e plessi adeguati, costruivamo le nostre coscienze, ci formavamo nelle discussioni, ci esaltavamo con volantini e striscioni. Nella scuola occupata a causa dell’inadeguatezza dei locali e per la mancanza di riscaldamenti e palestre, si partiva dal disagio locale e si finiva per discutere di politica e di mondo. Oggi viene a mancare proprio questo, le apparenti comodità forniscono meno spunti di riflessione, meno agitazione, scarsa partecipazione e poca attitudine alla rivolta. Mi sa che era meglio prima, quando avevamo poco e lottavamo per cambiare, rispetto ad oggi che gli studenti si illudono di avere tanto ma in realtà sono stati privati della possibilità di urlare per migliorare il proprio futuro. E’ un sottile processo di manipolazione culturale che di fatto impedisce la formazione di quella che una volta veniva definita coscienza di classe”.

“Quindi mi stai dicendo che sarebbe stato meglio se tuo figlio avesse frequentato una scuola attrezzata in garage improvvisati come una volta, in locali inadeguati e disagevoli, quando per fare un po’ di sport era necessario attrezzarsi con un Super Santos per giocare sull’asfalto e contro una saracinesca?”.

“Forse sì, se quello risultava determinante, come credo, a costruire soggetti in grado di alzare la voce e difendere i propri diritti. Perché, nella situazione attuale, si ritroveranno precari e frustrati da adulti”.

 

L’amico dello specchio aveva messo a nudo i miei tormenti. Trent’anni fa nelle scuole occupate si discuteva di politica, di libertà, di emancipazione, di giustizia sociale, di equità. I nostri modelli erano Che Guevara e Martin Luther King, sognavamo Cuba e la Rivoluzione. Oggi non si occupa più, perché sono in larga parte venute meno le motivazioni locali che originavano la protesta. Certo, si organizza saltuariamente la giornata di sciopero e la manifestazione contro la guerra o contro la violenza sulle donne, ma finisce li. Una protesta isolata che non trova continuità, l’occupazione che non può essere giustificata da temi alti, e che, nell’accezione sottosalariata del termine, trova compimento nell’avviamento al lavoro.

Diceva Pasolini, del quale lo scorso 2 novembre ricorrevano i 41 anni dalla morte, “meglio un proletario o sottoproletario libero che un piccolo borghese schiavo”.