Qualche sera fa ho svuotato la memoria della telecamera portatile ad uso familiare. Improvvise esigenze di utilizzo reclamate da mio figlio, mi hanno costretto a procedere all’operazione di trasferimento sul computer di casa del contenuto accumulato nella scheda dell’apparecchio.
Dico “costretto” perché la mia indole nostalgica mal si concilia con elementi riconducibili a fotografie o filmati (reperti dai quali provo a tenermi a debita distanza), la cui visione mi obbliga a fare i conti con il tempo che passa troppo rapidamente e del quale ci illudiamo, con crescente feticismo seriale grazie all’ausilio degli smartphone, di trattenere frammenti, sensazioni ed emozioni di vita vissuta. Attimi che appaiono ordinari e scontati quando li si vive in presa diretta, ma che diventano struggentemente malinconici nel momento in cui vengono rivissuti. Soltanto davanti alle immagini del tempo trascorso, infatti, ci si rende davvero conto dei mutamenti, delle trasformazioni, dei segni di cambiamento, di ciò che non tornerà più, dei giorni diventati mesi e poi anni in un tempo che ci appare indefinito nella sua fugacità. E si finisce per rimpiangere anche ciò che era quotidiano, abitudinario, “normale”, persino noioso o addirittura sopportato.
La chiamano vita. A me fa tristezza.
Resto sempre convinto che il tempo migliore sia quello che rallenti la produzione di ricordi e anestetizzi gli effetti emotivi del passato ma…esisterà per davvero? Non lo so, fatto sta che la memoria della telecamera conteneva filmati vari a partire dall’anno 2008, che dopo averli trasferiti sul pc ho avuto modo di osservare e rivivere. Una sorta di tortura autoinflittami perché, senza che fosse dovuto, ho deliberatamente scelto di guardare ogni frame, di ascoltare voci, di riassaporare istanti.
Si chiama vita, a me continua a produrre stati d’animo contrastanti, disseminati da malinconie stratiformi.
Storie. Schegge di esistenze lontane. A volte perdute nel tempo e sepolte dalle scartoffie del pensiero attuale.
Più di vent’anni fa lessi un libro del grande Enzo Biagi, si intitolava “Quante storie”. Ho letto da qualche parte, e ne condivido l’essenza, che l’esistenza di ogni individuo, se analizzata al microscopio, rivela tratti biografici degni della sceneggiatura di un film. Mai banale, mai scontata, sempre avvincente.
Proprio a proposito di storie, oggi mio figlio Antonio compie 15 anni, e il tempo fin qui trascorso si sintetizzerà nello sbrilluccichìo di un pugno di candeline su una torta di compleanno. Brindisi e auguri che racchiuderanno quello che è stato e quello che sarà, tra passato, presente e futuro. Festeggerà insieme ai suoi compagni di classe, ai cugini, agli amici. Tra questi ci sarà D., suo coetaneo, ragazzino timido e ancora insicuro come lui. Come tanti. Con la differenza che D. non ha il papà, strappato troppo presto alla vita da un male incurabile qualche anno fa. Una situazione familiare complicata, la madre non in condizione di accudirlo e prendersi cura di lui, D. che vive in una struttura religiosa con le suore, che riprenderà a frequentare la scuola forse da gennaio, che trascorre le sue giornate in maniera diversa da tanti suoi coetanei più fortunati. D. lontano da playstation e legittimi vizi legati all’età. Infanzia difficile e adolescenza ancora più complicata, la sua. Come quella di altri ragazzini con i quali D. condivide, in quella struttura di accoglienza per orfani e bambini provenienti da situazioni di profondo degrado, quella che dovrebbe essere la fase più bella della vita.
Perché via via che si cresce ci si rende conto delle differenze, delle ingiustizie, degli ostacoli gratuiti che la vita, quella che si ostinano a chiamare vita, ha “comodamente apparecchiato” su sogni, traguardi e aspirazioni.
Quante storie.
Come quella di L., ragazzina di 12 anni, scappata da una guerra che non comprende ma che in fretta ha imparato a conoscere, impegnata tutto il giorno a chiedere qualche spicciolo per campare nei pressi di un semaforo in centro città. La vedo ogni sera, quando esco dal lavoro, e non posso restare insensibile davanti a quegli occhi espressivi che si specchiano nel finestrino della mia auto. Un sottile vetro che separa esistenze distanti anni luce.
C’è chi a 15 anni festeggia, chi vive dalle suore, chi accanto a un semaforo: sembra una frase estrapolata da una qualche poesia di Rino Gaetano, purtroppo è realtà. Per chi possiede il dono della fede è destino, chi come me non crede attribuisce al cinismo degli uomini e al caso (inteso come contesto sociale e punto del globo dove si nasce) le sofferenze delle persone. Tra le tante storie c’è anche quella di Hayoub, il diciannovenne etiope giunto in Italia su un barcone di disperati, ospite un Natale fa a casa mia per il cenone, del quale ho già scritto tempo fa.
Ragazzini che in comune con mio figlio hanno solo l’età adolescenziale. Progetti e sogni sono un’altra cosa e marcano distanze purtroppo abissali. Piccoli uomini simili come soltanto le nuvole sanno essere, identiche solo da un punto di vista etimologico ma estremamente diverse l’una dall’altra.
Ieri è stata la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Tutte le violenze, non solo quelle che riempiono le prime pagine dei giornali. Ecco, io credo che i bambini e le donne siano come le nuvole: esseri delicati, sensibili, leggeri, sospinti e troppo spesso strattonati con durezza dal feroce vento della vita.
Quella che, nonostante tutto, non smettiamo di chiamare vita.