L’altra mattina, prima di recarmi in ufficio, sono entrato in un bar-tabacchi per acquistare un pacchetto di sigari e provare ad affogare i residui di sonno dentro un caffè. Non proprio un’abitudine, dato che faccio colazione a casa prima di uscire e di sigari me ne riservo un’abbondante scorta mensile. Ma l’ambiente del bar al mattino, di tanto in tanto, aiuta a riprendere dimestichezza con l’umanità. Infatti, pur alzandomi presto, è necessario un po’ di tempo prima che riprenda a tutti gli effetti contatto con il mondo: dall’incazzatura iniziale (una costante, secondo me necessaria per affrontare meglio la giornata), caratterizzata da silenzi ermetici e pressoché totali, passo ai monosillabi e solo dopo un paio d’ore ai ritmi abituali, in un lento crescendo sempre uguale a se stesso, si tratti di giorno feriale o domenica, o persino periodo di ferie. Sicuramente un mio limite, ma non ho mai sopportato chi sorride di primo mattino, chi appena sveglio parla in continuazione, chi si dilunga in discorsi e analisi, chi fa domande e pretende, com’è giusto che sia, risposte. Guardandomi intorno nel locale, chiuso nella stanca e annoiata attesa del mio “ristretto”, tra avventori infreddoliti, impiegati dall’aria poco entusiastica e studenti chiacchieroni, non ho potuto fare a meno di notare, nell’angolo meno illuminato del bar, le tre persone impegnate nella sfida a perdere con le slot-machine succhiasoldi. Due uomini, uno sui trent’anni e uno sulla cinquantina, e una donna di oltre mezza età. Tutti e tre concentrati a infilare monetine, schiacciare il pulsante, attendere l’esito del dispositivo elettronico e ricominciare da capo. Senza soluzione di continuità. Ipnotizzati già alle 8 del mattino. Mi sono chiesto se queste tre vittime di quella che a tutti gli effetti è stata inserita tra le patologie comportamentali, avessero una famiglia a casa, dei figli, dei genitori, probabilmente un lavoro in nero malpagato e sfruttato o una pensione al minimo. Eppure, nonostante ciò, stavano lì, incollati al video, nella speranza di racimolare qualche vincita eventualmente da “reinvestire” nel business. Quella del gioco d’azzardo, sostenuta e sollecitata dallo Stato, ha assunto con il tempo le caratteristiche di una vera e propria piaga sociale. Gratta e vinci, Turista per caso, slot-machine, casinò, diavolerie varie. Sentivo l’altro giorno alla radio che il jackpot del Superenalotto aveva raggiunto l’incredibile e stratosferica cifra di 70 milioni di euro. In tempi di crisi sociale, di incertezze diffuse, di smarrimento di valori e punti di riferimento, l’attrazione per il gioco diventa fatale. E si propaga e si diffonde con l’illusoria promessa di cambiare vita. Come un’alternativa al grigiore, alla miseria, agli affanni, alle umiliazioni quotidiane. Voi cercate lavoro, serenità e sicurezza economica? Noi vi diamo molto di più, la possibilità di stravolgere la vostra esistenza rinunciando al sacrificio della fatica, dello studio e dell’impegno quotidiano, prospettandovi il modello di vita delle star da copertina. Giocate sì, ma con prudenza, perché il gioco può creare dipendenza. Il monito rimedia ai problemi di coscienza e garantisce al contempo entrate sicure.
Il meccanismo del gioco, nella sua accezione più perversa, ha attecchito su quel che rimane di un Paese allo sbando. Si utilizza tale metodo per risolvere problemi seri, per obnubilare le menti, per assumere decisioni, per affrontare tragedie sociali. Gli alloggi destinati ai terremotati del centro Italia, il cui numero disponibile è inferiore alle richieste dei senzatetto, vengono assegnati per estrazione, come a Tombola. Grottesco e allucinante. Il suicidio dell’immigrato a Venezia viene vissuto tra ironia e sberleffi come se si trattasse di una puntata dell’Isola dei famosi o, per restare in tema (ludico/immigratorio), di Giochi senza frontiere. Cinismo senza limiti. L’estrazione dei poveri corpi sommersi dalla valanga all’hotel Rigopiano, trattata in prima serata alla stregua di un raccapricciante Mercante in fiera o come una lugubre e irrispettosa puntata di Affari tuoi. Spettacolarizzazione tetra e sprezzante. Chi manca all’appello? Pacco numero 12. Chi è che si trova ancora là sotto? L’ancella, il lattante, il cameriere. Aggiorniamo i numeri, ma subito dopo la pubblicità, restate con noi.
Un recente sondaggio ha appurato che l’Italia è il Paese europeo dove in assoluto si registra l’utilizzo più massiccio dello smartphone: per messaggiare, per restare in contatto con i social network e, ovviamente, per giocare. Il tempo che destiniamo al gioco è spesso inconsapevolmente prevalente rispetto al resto. Conta la competizione, la sfida; il risultato finale solo quando si ha la percezione che ci riguardi direttamente. Ricordate il referendum di dicembre? Grandi scontri sul sì o sul no, poi a urne chiuse e verdetto sancito, l’interesse è scemato. Ma non disperate, prima o poi ci sarà ancora da divertirsi, con l’Italicum o il Mattarellum, poco importa. La Consulta si è pronunciata, les jeux sont faits. L’interessante è giocare. Siamo degli inguaribili mattacchioni.
Eppure non sempre è stato così, abbiamo vissuto un tempo non troppo lontano quando di giocare nessuno aveva voglia. 72 anni fa come ieri, il campo di concentramento di Auschwitz veniva liberato dall’Armata Rossa. La follia nazista aveva fine. Sembra soltanto un film, invece è Storia. La giornata della memoria, la commemorazione della Shoah, ci riporta con la mente a giorni terribili e veri, poco virtuali e molto tangibili. Quando la vita era davvero un terno a lotto, e in gioco c’era la stessa sopravvivenza. La posta in palio era alta, il rischio di vedersi estratto il proprio numerino significava provare sulla propria pelle l’orrore del nazismo. Deportazioni, violenze, torture, morte. Da tenere a mente ogni istante e non solo sui social, soprattutto ogni qualvolta si esprime un’opinione su una persona che consideriamo diversa da noi.
“Ad Auschwitz tante persone, ma un solo grande silenzio. Eppure siamo a milioni, in polvere qui nel vento”.
Game over.