Alle quattro del mattino, con tutto quel buio, non può essere mattino. E’ quasi un ossimoro, come il ghiaccio bollente o il sole nero. E alle quattro del mattino non è un’ora giusta per uscire di casa. Però a volta ti tocca, soprattutto quando c’è un aereo che ti aspetta. Sveglia, colazione, sonno misto ad agitazione, quella specie di frenesia immotivata che ti fa stare sveglio pur avendo voglia di dormire.
L’aria fredda della notte che ancora avvolge la porzione di mondo che ti ha adottato, la città immersa nel silenzio, i semafori lampeggianti al giallo, l’illuminazione stradale a ricordarti che c’è tempo prima che l’alba inizi a rischiarare luoghi e persone, assorbendone sogni e incubi. Per strada nessuno, assenza totale di vita, zero automobili in giro: la città si mostra indifesa, vulnerabile. La radio in macchina trasmette musica da camera, il volume è quasi impercettibile, i pensieri ancora annebbiati dal sonno la sovrastano senza lasciarle la possibilità di esprimersi. Poi le ultime finestre buie cedono il proscenio all’autostrada, una lunga scia d’asfalto che non lascia spazio all’immaginazione, tir mastodontici aggrediscono minacciosi la pece della notte, autogrill immersi nel silenzio appaiono come spettrali cattedrali di città fantasma, illuminati da insegne al neon e abbandonati al vuoto di uno spazio e di un tempo indefinito, sospeso.
L’aeroporto, in lontananza, appare più grande di quello che in realtà non è, enormi fari a led lo fanno risplendere ingigantendone le dimensioni. Persone strette nei loro soprabiti trascinano trolley fumando le prime sigarette della notte che sta per finire, le ultime prima di imbarcarsi. La sensazione è di ritorno all’umanità, al mondo vissuto. Sistemo l’auto al parcheggio, prendo il mio bagaglio, poi quasi per emulazione do fuoco al sigaro, tiro qualche boccata, il cielo è ancora denso di tenebre, decido di entrare nel terminal. All’interno la differenza di temperatura è notevole, allento la sciarpa, sbottono il loden, sono tentato dal levarmi il cappello a falde, ma desisto, più per comodità che per un improbabile cedimento fashion.
Il check-in è rapido, il metal detector mi spoglia di ogni ipotetico sospetto, le operazioni di imbarco mi destinano con il pulmino sull’aeromobile. Fila 6 posto F, accanto al finestrino dal quale osservo l’ala metallica: numero e lettera non mi dicono nulla, la mia patologica scaramanzia non induce nessun comportamento apotropaico. Non faccio in tempo ad allacciare le cinture e spegnere i cellulari che il sonno prende il sopravvento. Mi lascio andare, facendomi cullare dal movimento leggero di un gigante di lamiera che attraversa il cielo e sorvola le nuvole, nel nero fitto dell’oscurità. Quando apro gli occhi, la luce penetra dal finestrino e mi regala la visione di una distesa di zucchero filato, come in un film di David Lynch.
Poi, dopo un po’, Milano. Nebbia, pioggerellina sottile, cielo bianchissimo: l’ideale per me. Un tassista chiacchierone oltre ogni limite mi porta a destinazione, la giornata scorre lenta tra caffè, sigari, incontri e tramezzini serviti in un piccolo bar di quartiere, tipicamente milanese, da personale cortese e affabile. All’ora del tè sono di nuovo in aeroporto, stanco, soddisfatto, desideroso di rientrare. Il volo è previsto per poco prima delle 22, non è possibile anticipare la partenza. Mi aggiro per il terminal, provo ad anticipare almeno il check-in ma mi viene risposto che è troppo presto. Svogliatamente guardo vetrine, osservo gente, mi incanto alle hostess, analizzo l’atteggiamento serioso e attento di corpulenti militari armati di fucili che di solito vedo nei videogame o nei film d’azione americani. Poi ancora caffè accompagnato dal sigaro, fuori, davanti al posto riservato ai taxi. Alle 18,30 si può fare il check-in, ma la fila per il metal detector è interminabile, come quella dell’entrata al concerto di una rockstar: un serpentone che si snoda sinuoso per qualche centinaio di metri, per poi strozzarsi nel percorso a zig zag che prelude ai controlli. Annoiato e stizzito mi accodo, dietro di me un gruppo di francesi. Uno di questi inizia a discutere al cellulare con chissà chi, e la conversazione si protrae per l’intera durata del percorso: avrei pagato per una di quelle mitraglie enormi che i militari esibivano con distaccato orgoglio. Mi si avvicina una ragazza bionda, distinta e carina, in minigonna. Io penso, lì per lì, che il mio fascino dovuto al cappello alla Humphrey Bogart può aver colpito ancora. Mi chiede se per caso ho urgenza di partire e voglio evitare la fila. “Perché? C’è un modo per sbrigarsi?”, chiedo con tono fintamente disinteressato. Avessi potuto, avrei acceso il sigaro immedesimandomi in un qualche James Bond. “Sì, si può fare il check-in veloce. Costa solo 10 euro”. Sguardo sardonico, il mio. “No, grazie. Preferisco la fila, mi eccita di più”, rispondo nel tentativo di sfoderare una frase fatale, da titoli di coda. Lei si allontana impassibile, senza nessun segno di turbamento. Nonostante il petulante fastidio in lingua transalpina che non accenna a interrompersi, tra i peggiori pensieri sulla Torre Eiffel e il Louvre, giurando a me stesso che non avrei mai più assaggiato una baguette in vita mia, sviluppavo tale concetto: il sistema crea il servizio, poi genera il disservizio (la fila interminabile a causa del ritardato check-in) e infine offre la soluzione a pagamento. Geniale. E’ come acquistare un frigorifero nuovo che per farlo funzionare è necessario comprare il ghiaccio a parte. Io ti vendo la lavatrice, ma la centrifuga la fai girare a mano. Strabiliante. Sicuramente peggio di quando, ignorando il come e il perché, un estraneo ti intesta una casa in centro, o ti nomina beneficiario di una qualche polizza assicurativa senza che tu ne sappia nulla.
Non ho mai capito perché, ma il viaggio di ritorno dura sempre di più. Fila 7 posto F, neppure stavolta trovo valide ragioni per tastare i gioielli di famiglia. Ascolto con l’attenzione che da bambino prestavo ai “programmi per l’accesso” della Rai, le raccomandazioni mimate dalla hostess. A metà mi addormento, senza aspettare il finale. L’atterraggio mi sveglia, con 20 minuti di anticipo sull’orario previsto. Poi ancora autostrada, Ligabue in sottofondo e, poco prima dell’una, finalmente, casa. Sfinito.
Tutto in poco meno di 24 ore. Come in un film, tratto da una storia vera. Ordinaria e vissuta.