Ci sono tradizioni che non muoiono mai. Rituali che si perpetuano all’infinito, assumendo una certa laica religiosità nel riproporsi con cadenza fissa. Non sempre incontrano il nostro gusto, spesso li critichiamo, a volte persino li osteggiamo, ma certi appuntamenti hanno scandito e continuano a scandire il ritmo delle nostre vite. Come i mondiali di calcio, le olimpiadi, i regali a San Valentino, il Carnevale e il Festival di Sanremo. A parte i citati eventi sportivi, gli altri tre cadono tutti nel mese di febbraio. Il mese degli innamorati, dei giorni in maschera e della musica italiana.
Personalmente, sin da ragazzino, nessuno dei tre eventi mi ha mai entusiasmato. A San Valentino ho sempre fatto e ricevuto il classico pensierino, ma il sentimento da celebrare commercialmente a data comandata non mi ha mai coinvolto più di tanto da un punto di vista emotivo. Anzi, l’esigenza di dover programmare, in età adolescenziale, cene romantiche al profumo di rose rosse mi creava agitazione, sconcerto e perplessità. Stesso discorso, se non addirittura peggio, per il Carnevale: l’ho sempre vissuto malissimo, l’obbligo di mascherarsi e uscire per strada generava in me disagio e senso di inadeguatezza. Da bambino l’uniforme di Zorro era d’ordinanza, da ragazzo in un paio di circostanze mi sono arrangiato con abiti di mia madre, salvo in un’occasione che, trascinato all’unica festa in maschera alla quale sono stato costretto a partecipare in vita mia, mi presentai vestito da Peter Pan grazie (o per colpa…) alla gentile concessione di un amico che mi prestò il costume. Ricordo ancora oggi con quale fastidio e malanimo trascorsi la serata, inchiodato su una sedia con la scusa del mal di testa, ma in verità assai imbarazzato dalla calzamaglia aderente di colore verde che sotto una specie di gonnellino inguinale metteva in mostra aderenze sconce.
Tuttavia, non posso negare che le situazioni appena ricordate rientrino nel novero delle tradizioni che ogni anno coinvolgono le nostre esistenze, direttamente o per vie traverse. Stesso discorso per il Festival di Sanremo: mai sopportato, eppure sempre intravisto. Perché, alla fine, è l’evento nazional-popolare che attira la nostra attenzione e cattura la nostra morbosa curiosità, incarnando un momento di coinvolgimento collettivo che va ben al di là dell’interesse per le canzoni in gara e per gli interpreti che si sfidano. Ci attira il gossip, le schermaglie tra i protagonisti, gli eventuali spifferi del dietro le quinte, i rumors su delusioni e scandali più o meno appariscenti. Se vogliamo, il Festival rappresenta una parentesi tutta lustrini e paillettes sospesa nella vita reale di tutti i giorni, con la musica, i fiori, i colori, le canzoni, l’orchestra dal vivo, la mise dei cantanti in gara. Una parentesi colorata che prova a distrarci da tutto il resto, da affanni, problemi e pensieri personali e familiari, dall’impennata dello spread, dai suicidi dovuti alla disperazione per mancanza di lavoro, dalle schifezze della cattiva politica locale, nazionale e mondiale.
Celebrazione di massa quella nella città dei fiori, chiassosa e colorata al pari del Carnevale, o, per contrappasso, pubblicamente intima e monocromatica rosso porpora del San Valentino, che nell’unica serata romantica annuale imposta per decreto, prova con una buona dose di ipocrisia a imporre una proiezione immaginaria dell’amore: un’isola artefatta di felicità edulcorata nel mare burrascoso dei rapporti sentimentali fatti di liti e, sempre più spesso purtroppo, di stupri e femminicidi. Ho sempre diffidato dell’amore manifestato con gesti eclatanti o esibiti, forse perché, per carattere, non ne sono capace. Resto convinto che, piuttosto che adeguarsi alle convenzioni diffuse, sia più reale e vera la complicità quotidiana, la serena ordinarietà. In altre parole, piuttosto che fare i fenomeni una volta all’anno (o vincere tutto solo in un’occasione nella vita…), molto meglio essere costanti e fare risultato ogni giorno.
Fuor da ogni metafora calcistica, non nego di aver fatto da ragazzo ciò che oggi appare ai miei occhi banale e puerile. Sarà l’ennesimo segnale dell’incipiente vecchiaia, pardon, saggezza? Forse è così, perché, a proposito dei colori che il mese di febbraio con le sue ricorrenze ci trasmette, l’altra sera, uscendo dal lavoro, sono rimasto incantato dallo splendido arcobaleno che si stagliava davanti ai miei occhi. Da qualche parte ho letto che, con il passare degli anni, si diventa più teneri e sensibili di fronte a certi eventi. Certo è che, a ben rifletterci, l’arcobaleno è l’unico fenomeno naturale che non produce effetti tangibili sul nostro corpo: non ci bagna come la pioggia, non ci scuote come il vento, non ci riscalda come il sole, non ci ammacca come la grandine, non ci accarezza come la neve. L’arcobaleno lo ammiriamo, e basta. E più ci avviciniamo, più lui si allontana. Somiglia tanto all’utopia, che nelle splendide parole dello scrittore uruguagio Eduardo Hughes Gaelano, scomparso nel 2015, veniva definita così: “L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi e si allontana di due passi. Cammino dieci passi e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare”.
E allora, mi si perdonerà il maldestro tentativo di parafrasare Galeano, probabilmente l’arcobaleno è semplicemente un orizzonte a colori, dove l’utopia riesce a tingersi di meravigliose aspettative.
L’importante è, nonostante tutto, continuare a camminare.