Di cosa vogliamo parlare? Della strage di San Pietroburgo, dell’attacco terroristico a Stoccolma o del massacro di bambini in Siria? Ma si, parliamone pure, tanto tra una settimana al massimo sarà tutto dimenticato. Ormai l’indignazione è ad orologeria, un countdown sperimentato che attinge a piene mani alla retorica e all’emotività del momento. Poi passa tutto. In buona parte perché siamo assuefatti, abituati a vedere sangue, morte e cadaveri ammassati. Forse a causa del fatto che la frequenza di certe tragedie è ormai quasi all’ordine del giorno. Forse pure perché ci viene difficile non provare noia per vicende spesso troppo simili l’una all’altra: stessi colpevoli (l’Isis), uguali cause (il terrorismo di matrice islamica), medesime vittime (i civili), identiche dinamiche (automezzi lanciati a folle velocità in luoghi affollati). Nel caso della strage in Siria, a dire il vero, si è trattato di bombe, ma anche in questo il rituale è troppo simile a quanto di recente già visto in altri posti: Afghanistan, Africa, Palestina, Medio Oriente, Iraq. Una ventina d’anni fa anche a Belgrado e ancora prima a Sarajevo; all’epoca si scendeva in piazza a manifestare contro le guerre, si organizzavano fiaccolate, volantinaggi e dibattiti allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica…oggi i sit-in non vanno più di moda, anche perché bisognerebbe farne di continuo. Dunque, resta l’indignazione di protesta sui social network, te la cavi con un comodo post di poche righe e punto.
Quello che manca, oggi, è la fase dell’approfondimento, dell’analisi geopolitica, dell’indagine sulle ragioni, sui motivi, sulle reali cause. Ci si accontenta della versione più gettonata dai mezzi di informazione globale. “Siamo in guerra”, si afferma da più parti. Ammesso che sia vero, ma che guerra è? Chi l’ha dichiarata? Contro chi si combatte? Chi sono i buoni e chi i cattivi? Si ragiona per schemi preconfezionati e, nella fattispecie siriana, si parte dall’assunto: Assad ha bombardato i civili con armi chimiche, assassinando tra gli altri una trentina di bambini. Esistono le prove, le ha fornite la Turchia…come dire che Totò Riina sia attendibile nell’affermare che la mafia non esiste. E allora, siamo sicuri che i fatti siano andati esattamente così, che proprio tale fosse l’intenzione? Quali motivazioni avrebbero indotto il presidente siriano a pianificare il massacro? Quale tornaconto politico si era prefigurato di ottenere Assad, proprio adesso che anche l’America ne aveva riconosciuto il ruolo abbandonando ogni tentazione di spodestarlo?
Alcune tra le principali metropoli europee e non (Parigi, Nizza, Berlino, Bruxelles, Istanbul…e la contabilità si aggiorna con San Pietroburgo e Stoccolma) sono vittime di attacchi terroristici da parte di estremisti islamici riconducibili all’Isis. Ma l’Isis da chi è composto? Chi lo fomenta? Chi lo arma e perché? E, soprattutto, su quanti miliziani può contare? Trump scatena i suoi arsenali e bombarda l’aviazione siriana, senza un preventivo mandato ONU, senza confrontarsi con gli alleati. Lo fa di propria iniziativa, con il plauso di Israele, Arabia Saudita e Turchia in primis. Quelli dell’Isis, posto che esistano per davvero nelle forme e nei mezzi cui ci hanno indotto a inquadrarli, ringraziano sentitamente: ora, in Siria, avranno campo libero. La Russia si ribella, la Cina non si sbilancia, l’Europa come sempre assume posizioni ambigue, con Francia e Germania a favore dell’attacco.
E se la storia fosse un’altra? Se la rappresaglia a stelle e strisce rispondesse a logiche diverse? Se, per caso, non rappresenti piuttosto un’esigenza politica mantenere alto e costante il livello di conflitto? L’industria bellica obbedisce a precise coordinate finanziarie, costi e ricavi, fatturati e utili. Chi produce armi in grosse quantità, ha necessità di vendere il proprio prodotto, se non di consumarlo direttamente in prima persona. Mettiamo che la versione fornita da Assad sia vera, che le bombe siriane abbiano centrato un deposito di armi in dotazione ai ribelli, e che in questo deposito fosse attivo un laboratorio preposto al confezionamento di munizioni dall’alto potenziale chimico. In questo caso, che legittimità avrebbe avuto Trump di ordinare l’attacco missilistico contro un Paese sovrano? O, per meglio dire, che legittimità avrebbero gli Stati Uniti di decidere chi, cosa, come e quando bombardare, utilizzando una discrezionalità a senso unico? Non mi pare di ricordare che gli Usa abbiano mai assunto iniziative del genere contro Israele, autore di massacri analoghi in Palestina. Nel Corno d’Africa si protraggono da decenni conflitti etnici sanguinari, guerre tribali, genocidi religiosi di una ferocia inaudita: nessuno sceriffo si è mai preoccupato di inviare Caccia Bombardieri o Cacciatorpedinieri né alcuna portaerei pronta all’azione. Nessuna indignazione per bambini africani o palestinesi ha mai indotto i “gendarmi del mondo” a scatenare controffensive militari.
Viene da pensare, quindi, che dietro l’offensiva in Siria, dietro l’Isis, dietro le pseudo “primavere arabe”, come fu per la guerra contro il fantomatico arsenale chimico di Saddam o le ritorsioni in Afghanistan in seguito al non del tutto chiarito attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre, vi sia dell’altro. Industria bellica, petrolio, interessi geopolitici, risorse di cui impossessarsi nello scacchiere mondiale dalle limitate energie di natura fossile. E, non ultimo, l’esigenza di riappropriarsi di un ruolo economico primario nella sfida tra vecchie e nuove superpotenze economiche in competizione tra loro (Cina, Russia e India). Per l’indebitata America, probabilmente l’unica àncora di salvezza.
Come sosteneva uno dei più grandi generali e strateghi mai esistiti, il prussiano Carl von Clausewitz, “tanto più lo scopo della guerra verrà a coincidere con il fine politico, tanto più puramente militare e meno politica sembrerà essere la guerra”.