96 ore senza pace. Sembra il titolo di una “pillicula ‘mericana”, per dirla alla Montalbano, invece è il tormento che continua ad assillarmi senza tregua da sabato notte. Mai come questa volta, l’assillo è esponenzialmente elevato, il pensiero ricorrente e perpetuo. Perché, a differenza delle batoste precedenti, quella di Cardiff incide sia ripensando all’evento specifico che in prospettiva futura. E, come se tutto ciò non fosse sufficiente, affonda le radici in un passato analogo e senza attenuanti.
La settima sconfitta maturata in nove finali disputate di Coppa dei Campioni/Champions League, la quinta consecutiva, è un macigno pesantissimo, un boccone talmente amaro che viene difficile mandarlo giù. Ad accrescere rammarico e recriminazioni varie è il percorso stagionale sviluppato nella massima competizione europea per club: solo tre goal incassati in tutto il torneo (finale a parte), una nuova mentalità acquisita, dimostrazione di personalità in un crescendo di autostima, meccanismi collaudati in ogni reparto, avversari tutt’altro che banali e arrendevoli affrontati nel lungo percorso di avvicinamento a Cardiff. Insomma, le premesse stavolta c’erano tutte, e invece…invece è finita come sappiamo.
L’ho scritto a caldo sabato notte, tra mille sigari e un vortice di pensieri angoscianti: la Juve, per fatturato e qualità, sta al campionato italiano come il Real, il Barcellona e il Bayern stanno all’Europa calcistica. Siamo primi per netto distacco in Italia, grazie all’oculatezza nel fare mercato tra parametri zero e mosse azzeccate, nel tenere a bada i conti di bilancio, nella crescita dei ricavi (da 150 a 390 milioni nel giro di appena 5 anni), negli investimenti strutturali (lo Stadium su tutti); parimenti, siamo al nono posto in Europa per fatturato, dietro supercorazzate che grazie a diversi fattori (agevolazioni fiscali, stadi di proprietà, merchandising, grossi bacini d’utenza, espansione del brand a livello mondiale) riescono a fare la voce grossa assicurandosi top player di indiscusso valore. E’ una colpa avere un fatturato che ti permette di competere ai massimi livelli? Sicuramente no, ma di certo è un fattore. E incide molto.
Fino a una trentina d’anni fa, capitava che l’Udinese comprasse Zico, lo scudetto poteva aggiudicarselo il Verona o la Sampdoria, e in Europa poteva alzare la coppa la Stella Rossa di Belgrado, la Steaua Bucarest o l’Olympique Marsiglia. Oggi è pressoché impossibile, il calcio è cambiato e la finanza (intesa come capacità di spesa) ha assunto un peso specifico dirimente. Anni fa era tutto più livellato, in Italia la Juve acquistava con una certa facilità dalle cosiddette “provinciali”, ma ai Mancini e ai Vialli scudettati della Samp non potevi avvicinarti perché col piffero che te li cedevano, se non di fronte a offerte da capogiro (o solo dopo aver ottenuto il risultato storico). Stesso discorso in Europa, ognuno si teneva stretti i pezzi da novanta che si ritrovava in casa, salvo diverse valutazioni da parte del tecnico a cui veniva affidata la squadra in quel dato momento. Insomma, il mercato si basava per lo più su scelte squisitamente tecniche più che economiche. La mutazione avvenuta nell’ultimo trentennio ha modificato il modo di fare mercato e, conseguentemente, anche i rapporti di forza, aumentando quella forbice e scavando un fossato sempre più profondo.
Stante così le cose, come mai allora, tornando all’oggi, nel percorso bianconero fino all’appuntamento in Galles si è riusciti ad andare avanti, nonostante tali innegabili distanze? Perché nel girone di qualificazione, e ancora di più nei doppi scontri di andata e ritorno ad eliminazione diretta, una delle due sfide la si giocava in quel fortino che è lo Stadium: tradotto, se avessimo incontrato il Real Madrid in semifinale, con tutta probabilità saremmo passati, per poi, quasi certamente, soccombere in finale contro Barcellona o Bayern. Garantito al limone. In gara unica siamo perdenti, inutile nasconderlo. Alle differenze date dall’organico (i “blancos” in tribuna hanno spedito James Rodriguez, noi Rincon…), va sommata la naturale propensione psicologica che attanaglia la Juve in finale di Coppa Campioni/Champions. Una vera e propria maledizione: quando si vince ci sono i morti (Heysel docet…) o la lotteria dei calci di rigore. Se avessimo conquistato il trofeo a Cardiff, state pur certi che in piazza San Carlo a Torino si sarebbero conteggiati almeno venti decessi e il giorno dopo i giornali avrebbero dedicato titoli e servizi alla sciagura piemontese: la vittoria in Champions sarebbe passata, giustamente, in secondo piano. Funziona così, c’è poco da fare.
Questo per quanto riguarda passato e presente. E il futuro? Intanto va detto che un eventuale successo nei prossimi anni non cambierebbe purtroppo la proporzione, tre coppe conquistate e sette finali perse. Senza considerare che un’altra sconfitta ci avvicinerebbe alla poco ambita meta della “decima”, conteggiando gli insuccessi. Beninteso, continuerò a sperarci nel trionfo continentale, ma confesso che più della vittoria mi terrorizza rafforzare quel terribile primato di batoste in finale.
Nel pessimismo cosmico che mi assale, dal buco nero nel quale siamo stati inghiottiti in modo devastante rispetto alle pur dolorose esperienze passate, non riesco a intravedere alcuno spiraglio di luce in prospettiva futura in chiave europea. Troppo autolesionismo? Atteggiamento nichilista sublimato all’ennesima potenza? Depressione galoppante post-sconfitta? Sarà…ma chi ha argomenti validi si faccia avanti, accetto ogni tipo di considerazione. Dal mio modestissimo punto di vista, continueremo a comandare entro i confini nazionali, ma al di là delle Alpi sarà complicatissimo invertire il trend.
FINO ALLA FINE!!! FORZA JUVE!!!!