In principio furono risate. A cavallo tra le due guerre, poi il successo che ne consacrò l’immenso talento, dopo il secondo conflitto mondiale. Di mondiale ci fu certamente quello calcistico, memorabile nelle sue “notti magiche”. Era sempre lui, perché chi crede nella reincarnazione non poté fare a meno di associare quello sguardo magnetico, quel talento espresso sul palcoscenico con la favola di quell’altro meridionale dagli occhi spiritati che incantò l’Italia intera fino ad un passo dalla gloria, infrantasi in una notte napoletana dai chiari connotati argentini. Diceva qualcuno che la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Accade, tuttavia, che in talune circostanze si verifichi esattamente il contrario, ossia passando in men che non si dica dalla farsa alla tragedia. Il tutto, stavolta, sotto un unico comune denominatore, identificato con quel nome composto da quattro lettere, due consonanti uguali e due vocali simili, perché la seconda di vocale si differenzia dalla prima solo per via di un accento. Totò. Come il grande principe della risata, Antonio De Curtis di cui quest’anno ricorre il cinquantenario dalla morte. Come Schillaci, siciliano di Palermo finito non si sa come a rappresentare l’identità nazionale nei mondiali di calcio del ’90, gli ultimi disputati nel nostro Paese e finiti in frantumi in una calda notte di inizio luglio; ironia della sorte, proprio nella città natale del grande De Curtis. La storia che stavolta, invertendo gli effetti temporali teorizzati da Marx, inizia in piacevole farsa, declina verso lo sconforto e termina in tragedia. Perché l’ultimo Totò, pur essendo anch’egli meridionale di Corleone, di cognome fa Riina e di professione non ha fatto né il comico né il calciatore. E di tragedie se ne intende non poco. Ora che l’ex boss di “Cosa nostra” è vecchio nonché gravemente ammalato, ci si chiede se sia giusto concedergli il diritto a morire fuori dal carcere. Ovviamente, come sempre accade da un po’ di tempo a questa parte, l’Italia dei social si è scatenata in commenti e considerazioni, spaccandosi tra giustizialisti e garantisti. Come fu per il criminale nazista Priebke, credo sia giusto che Riina sconti per intero la sua pena, magari in una struttura carceraria adatta a garantirne le cure e l’assistenza necessarie.
La Storia si caratterizza per eventi che si ripropongono con tragica fatalità, quasi con sconcertante ripetitività. Un mese e mezzo fa la tragedia della morte del ciclista Scarponi, poi subito dopo quella del campione di motociclismo Nicky Haiden, anch’egli investito mentre andava in bici. A seguire, il decesso della triatleta Julia Viellehner, travolta pure lei in bici. Come se non bastasse, in rapida successione l’incidente, per fortuna non fatale, a Valentino Rossi e in ultimo a Max Biagi. Coincidenze raccapriccianti che lasciano perplessi.
Di certo non si può parlare di coincidenze a proposito dell’incidente ferroviario in Puglia. E’ appena passato un anno dal disastro analogo del luglio scorso, e non credo sia necessario dilungarsi in analisi e spiegazioni. E’ sufficiente riprendere l’articolo che scrissi nell’occasione, per rendersi conto che nulla da allora è cambiato:
“L’incubo di una mattina d’inizio estate si materializza in Puglia. Studenti e lavoratori, pendolari da pochi euro si ritrovano maciullati tra le lamiere contorte di due convogli di pochi vagoni su un binario unico nei pressi di Andria. Lacrime e sangue, e lo Stato che “si costerna, si indigna e si impegna, poi getta la spugna con gran dignità”. Cosa volete che interessi, tra qualche giorno, se una manciata di famiglie passeranno il resto della propria esistenza a tormentarsi nel dolore. Il progresso non conosce battute d’arresto, il capitalismo delle grandi opere progetta investimenti faraonici, ponti e fiere, varianti e alta velocità. Se poi, ad alcune latitudini meridionali, le ferrovie viaggiano ancora come quarant’anni fa, poco importa. “Errore umano” sarà la versione che metterà tutti più o meno d’accordo. Ci saranno le solite interrogazioni parlamentari, i funerali di Stato, la costernazione di facciata e qualche bella e utile passerella istituzionale, che non guasta mai e fa sempre un certo effetto. Poi tutto come prima, a morire maciullati sulla 106 Jonica o sui binari di qualche sperduta campagna del Sud.”
La storia che da farsa diventa tragedia. E finisce per confermarsi farsa.