E così, per timbrare il passaporto ai Mondiali di Russia del prossimo giugno, ci toccherà sbarazzarci della Svezia: gara d’andata prevista per il 10 di novembre a Stoccolma, ritorno il 13 probabilmente a San Siro. Sicuramente non un buon sorteggio per gli azzurri perché gli scandinavi, ancorché privi di Ibrahimovic che in nazionale non gioca più, rimangono pur sempre una squadra capace di creare grossi problemi per la fisicità e il valore tecnico che riescono ad esprimere (nel girone di qualificazione sono arrivati secondi dietro i vicecampioni d’Europa della Francia, estromettendo l’Olanda). In aggiunta, le recenti prestazioni fornite dalla formazione di Ventura contro Macedonia e Albania (per tacere della Spagna…), lasciano molti dubbi circa le reali potenzialità in dotazione agli azzurri. In ultimo, il nome “Svezia” è legato indissolubilmente a un cattivo ricordo, visto che ci riporta alla memoria l’unica volta che la Nazionale mancò di qualificarsi a un’edizione del campionato del mondo, in occasione cioè dei Mondiali di Svezia del ’58 che incoronarono per la prima volta il Brasile grazie a Pelè, Garrincha, Didì e Vavà, artefici contro la Russia dei 130 secondi più entusiasmanti della storia del calcio.
Nelle 20 edizioni fin qui disputate, fu quella l’unica circostanza in cui gli azzurri “bucarono” la qualificazione: nella prima del 1930, vinta dall’Uruguay in casa, l’Italia infatti non prese parte alla competizione per propria scelta, sollevando polemiche e critiche. La nostra Nazionale si aggiudicò le due successive edizioni, nel ‘34 in casa e nel ’38 in Francia, grazie soprattutto al peso politico “esercitato” dal regime fascista. Poi, dopo la lunga sosta forzata a causa del conflitto bellico, si riprese a giocare nel ’50. A dire il vero, la data prevista era il ’49, ma il Brasile, aggiudicatasi l’edizione come Paese organizzatore, chiese e ottenne il rinvio di un anno allo scopo di ultimare la realizzazione di quello che all’epoca doveva diventare il più grande stadio del mondo: il Maracanà di Rio de Janeiro. Nel 1950, nelle intenzioni di Getulio Vargas che aveva preso il potere in Brasile con un colpo di stato, il Mondiale rappresentava un’occasione imperdibile per rafforzare l’immagine del regime. Finì con la clamorosa sfida passata alla storia con il nome di “Maracanazo”, quando l’Uruguay di Ghiggia e Schiaffino, in un pomeriggio di luglio davanti a oltre 200mila spettatori, mandò inaspettatamente in frantumi i sogni di gloria della Seleçao. Noi uscimmo dopo una sconfitta ad opera di…indovinate chi? ma della Svezia, naturalmente. Avevamo delle attenuanti: il viaggio verso il Brasile fu fatto in nave (troppo fresco il terribile ricordo della tragedia di Superga dell’anno prima, per vincere la paura dell’aereo…) e i palloni finirono tutti in mare già a Cadice, in Spagna. Quei Mondiali del ’50 furono i primi ai quali parteciparono i maestri inglesi, sconfitti contro ogni pronostico per una rete a zero dai dilettanti degli Stati Uniti.
Quattro anni dopo, nel ’54 in Svizzera, fummo umiliati dai padroni di casa. Si laurearono Campioni del Mondo i tedeschi dell’ovest, battendo in finale la grande Ungheria del sistema “MM” che in quegli anni dettava legge in Europa. Nel 1958 in Svezia, come già detto, mancammo la qualificazione. Nel ’62, nonostante il pareggio con la Germania e la vittoria contro gli svizzeri, l’Italia non superò il primo turno a causa della sconfitta con il Cile, paese ospitante.
Finalmente arrivò il turno dell’Inghilterra, che nel 1966 organizzò il mondiale e lo vinse in finale contro i tedeschi, al termine di una gara controversa condizionata dalla decisione di un guardalinee, l’azero Bahramov, che convalidò il goal “fantasma” che spezzò le gambe ai “crucchi” a vantaggio dei sudditi di Sua Maestà. Il guardalinee azero è uno dei pochissimi arbitri ad avere a Baku, capitale dell’Azerbaijan, uno stadio a lui intitolato… La nostra Nazionale subì la più cocente delle eliminazioni, contro la Corea del Nord, ad opera del famigerato Pak Doo-Ik, quello che per molti continua ad essere ricordato come dentista ma che in realtà svolgeva il mestiere di professore di ginnastica. Ma quella Corea, al di là di come continua ad essere dipinta nell’immaginario collettivo, era un meccanismo atletico perfetto, come testimoniano le giornate trascorse in Inghilterra dai suoi giocatori: sveglia alle 7, diecimila metri di cross alle 7.30, il resto della mattinata tra lezioni di scienze e politica economica, ginnastica e sollevamento pesi; pomeriggio allenamento individuale, dodici sprint sulle 150 yards e, dopo cena, partitella di 90 minuti con la palla che non poteva restare in possesso dello stesso giocatore per più di 10 secondi; infine, sei scatti sui cento metri con il tempo limite di 13 secondi. Altro che leggenda del dentista…
Nel 1970 in Messico, il dualismo Rivera-Mazzola ci trascinò fino in finale, dove ci arrendemmo solo al Brasile. Ma la semifinale Italia-Germania 4 a 3, allo stadio Azteca di Città del Messico, più che una partita di calcio è diventata l’emblema della bellezza di questo sport. Nel ’74 in Germania, la Nazionale non superò il turno di qualificazione, ma quei mondiali verranno ricordati soprattutto per la storica sfida tra i tedeschi dell’ovest e quelli dell’est, risolti a vantaggio di questi ultimi da una rete del “compagno” Sparwasser, in un clima da spy-story con la tensione alle stelle. Il mondiale, alla fine, lo vinse la Germania Ovest.
All’appuntamento del 1978, nell’Argentina dei “desaparecidos” vittime della dittatura del generale Videla, la Seleccion ebbe la strada spianata per ovvie ragioni… Gli azzurri arrivarono quarti, dopo aver perso la “finalina” contro il Brasile di Dirceu. Ci saremmo rifatti con gli interessi quattro anni dopo, nell’estasi dello stadio Santiago Bernabeu, davanti agli occhi esaltati del Presidente Pertini. L’eroe nazionale di quell’indimenticabile 1982 fu, manco a dirlo, Paolo “Pablito” Rossi, assieme ai vari Conti, Cabrini, Zoff, Gentile, Collovati, Scirea, Tardelli e via dicendo, tutti alle direttive del “vecio” Enzo Bearzot.
L’86, ancora in Messico, ci fece male Platini interrompendo agli ottavi di finale la nostra avventura. Sotto le nuvole messicane trionfò e vinse il suo secondo mondiale l’Argentina, con la squadra in assoluto più scarsa tra tutte le selezioni albiceleste che avevano partecipato alle varie edizioni precedenti. Ma quella formazione, composta per dieci undicesimi da poco più che onesti pedatori del pallone, aveva un uomo con la 10 sulle spalle capace di decidere le partite da solo. Il goal di mano agli inglesi e quello successivo partendo dalla propria metà campo e scartando tutta la nazionale britannica, consacrarono Diego Armando Maradona nell’olimpo del calcio.
Nel 1990, ai mondiali di casa, eravamo i favoriti. Le “notti magiche” avevano gli occhi spiritati di Totò Schillaci, ma quel sogno annunciato venne bruscamente interrotto in una notte napoletana dall’argentina del “dies”. Fummo costretti ad accontentarci del terzo posto, battendo gli inglesi a Bari. Nel mondiale a stelle e strisce del ’94 furono i rigori a condannarci, nella finale di Pasadena contro il solito Brasile. Sbagliarono dal dischetto, oltre a Massaro, Franco Baresi e Roberto Baggio, entrambi in non perfette condizioni fisiche. Ma i numeri del “Divin codino”, in Usa, restano ancora impressi nella memoria di tutti gli appassionati di football.
Nel ’98, in Francia, ancora una volta i rigori ci furono fatali, ai quarti contro i padroni di casa poi aggiudicatisi la coppa in finale contro il Brasile di Ronaldo. Quattro anni dopo, in Giappone e Corea, fummo estromessi agli ottavi dalla Corea del Sud e, più prosaicamente, dall’arbitro Moreno. Ma siccome la vendetta è un piatto che va servito freddo, nel 2006 in Germania, l’Italia di Lippi conquistò a Berlino la sua quarta coppa del mondo, affermandosi ai rigori contro i francesi e le testate di Zidane. In Sudafrica, nel 2010, la Spagna impartì lezioni di calcio a tutti, mentre noi non superammo il girone di qualificazione, ultimi dietro persino la Nuova Zelanda. Non andò meglio nel 2014, in Brasile, quando ci qualificammo terzi del girone alle spalle di Costarica e Uruguay e tornammo anzitempo a casa.
Ora c’è la Svezia che ci separa dalla trasferta in Piazza Rossa davanti al Cremlino. Per poterlo raccontare, un giorno, ai nostri nipoti.