Una volta era uso comune chiamarle “pettegolezzi”. Convenzionalmente, a sentirle, si apostrofava l’interlocutore di turno con un “non dire cazzate”, “non sparare fesserie”. Ma si possono appellare pure con il termine “castronerie”. Il verbo più adatto per inquadrarle è “coglioneggiare”. Ma anche “cazzeggiare”. Insomma, tanti modi per definire quelle che, nella disastrata epoca in cui viviamo, vengono seriosamente catalogate come “fake news”. Con la differenza che, rispetto al passato, anziché strappare un sorriso oggi fanno paura. Al punto da invocare un intervento legislativo per arginarle e smascherarle. Perché, al tempo di internet e dei social, sono diventate incontrollabili nello spazio e nel tempo. Denudando la nostra fragilità nel non riuscire più a stabilire cosa è vero e cosa è falso.
E’ sufficiente che la notizia abbia del sensazionale, dell’inverosimile, dello scandaloso, che in un batter di ciglia si diffonde senza controllo. Generando un effetto a catena capace di gettare ombre, di incrinare credibilità, di far traballare governi e istituzioni. Le “fake news” possono distruggere carriere e provocare terremoti politici, infangare reputazioni, offuscare certezze, mettere in cattiva luce l’operato di un singolo o di un’associazione. E’ sempre stato così: pensate a Enzo Tortora, forse il caso più emblematico capace di distruggere una persona. Ma anche al ritrovamento, anni addietro, delle sculture attribuite a Modigliani. “Fake news” ante litteram, con la differenza sostanziale che la falsità, all’epoca dei fatti, non risiedeva nella notizia fatta circolare ad arte, bensì nel contenuto della stessa.
Un tempo il fenomeno era più circoscritto, mentre oggi basta un “post” ben congeniato su Facebook per avviare l’operazione di screditamento e di accettazione diffusa del falso su larga scala. La novità, tuttavia, non risiede solamente nella velocità di diffusione della falsa notizia, ma nella capacità di discernimento che abbiamo smarrito. E questo per due motivi: il primo perché siamo talmente abituati all’orrido che ormai non ci meravigliamo più di nulla, essendo permeabili a tutto; il secondo a causa del fatto che, complice l’assuefazione al malaffare, allo scandalo, all’eccesso, alle stravaganze kitsch, riteniamo plausibile che tutto possa realmente accadere. Poi, si sa, quando una notizia si ammanta di ufficialità in quanto resa pubblica e ben corredata dai vari mezzi di informazione globale, allora non ammette né richiede verifiche o dubbi.
Resto convinto che tutte le notizie siano “fake news”, nel senso che ognuna di esse abbia un fondamento di verità e una quota percentuale di bugia. Tutto sta nel come facciamo prevalere l’uno o l’altro aspetto. Prendiamo, per esempio, la questione riguardante la crescita impetuosa del Pil che certifica la ripresa dell’economia del nostro Paese e il conseguente miglioramento generalizzato delle condizioni di vita. La notizia è in parte vera, in parte una “fake news”. E’ vera perché gli indicatori economici fanno registrare l’aumento degli ordini commerciali, del fatturato nell’industria, delle esportazioni. E’ falsa perché tutto ciò non corrisponde, in modo automatico e diretto, ad un miglioramento del bilancio di famiglie e lavoratori. Anomalia? Assolutamente no. Tutto secondo le più elementari regole del sistema economico capitalista. In tempi di crisi, gli effetti negativi si riverberano sulle masse, soggetti deboli della catena, e producono licenziamenti, disoccupazione, riduzione dei salari, nuove povertà ecc. In periodi di ripresa, i profitti derivanti dall’incremento di produzione si traducono in un vantaggio tangibile per affaristi e detentori di ricchezza. In altre parole, rimane sempre valida l’equazione secondo la quale le perdite si socializzano e i profitti si privatizzano. Ecco perché, alla notizia del miglioramento dei dati economici del Paese, noialtri ce ne accorgiamo poco e nulla: nella nostra vita quotidiana cambia zero in termini di maggiore agiatezza. Per invertire l’andazzo, bisognerebbe operare una reale redistribuzione delle ricchezze e delle risorse, ma anche in questo caso sfociamo nel campo delle “fake news” o, per meglio dire, delle utopie. E’ il capitalismo, bellezza. A pochi le ricchezze, alle moltitudini il compito di divertirsi e distrarsi con le notizie farlocche che circolano sui social.
Vi confesso che, appreso dell’approvazione in Parlamento della legge sul “fine vita”, in prima battuta ho pensato che si trattasse dell’ennesima “fake news”. Per fortuna non era così. Come pure, all’arbitraria scelta di Trump di attribuire unilateralmente la città di Gerusalemme a capitale di Israele, ho creduto si trattasse di una bufala. Malauguratamente, era tutto vero. Mettiamola così, il confine tra reale e finzione resta labile, come quello tra il buon senso e la stupidaggine. Forse è proprio ciò che ci meritiamo. Certo che trent’anni fa, con quelle gag grottesche e intelligenti, scrivendo una pagina memorabile della televisione italiana, Arbore e Frassica c’avevano anche provato a metterci in guardia…