Ricordo il profumo di pini e di abeti che inebriava le strade cittadine. La tradizione prevedeva che l’albero dovesse essere rigorosamente naturale, e i venditori si attrezzavano a partire dalla fine di novembre accatastandoli contro muri o recinzioni, in bella mostra. Ce n’erano di ogni dimensione e altezza. Su quei marciapiedi, a partire dalle cinque del pomeriggio col sopraggiungere del buio, improvvisati falò accesi dentro alti bidoni di latta producevano quel calore a stento sufficiente per combattere il freddo pungente dal quale gli ambulanti provavano a difendersi. La luce del fuoco disegnava nell’oscurità immagini suggestive, bagliori isolati nel buio da osservare al di qua dei finestrini appannati delle auto, dove sguardi sognanti di bambini restavano incantati da quelle favolesche visioni. L’odore di pini e abeti rendeva l’atmosfera magica. C’erano quelli con le radici e quelli senza. Poi, una volta sistemati nell’apposito vaso a rendere natalizia l’atmosfera del salotto di casa, quel profumo corredava di una magia unica il mese dei sogni e dei regali. Oggi prevale l’albero artificiale, sintetico, privo di anima e di vita reale, e molte di quelle sensazioni sono svanite. Compresi gli odori.
Ricordo pure mio nonno, intento a sostituire i “pisellini” fulminati degli impianti di lucine colorate. All’epoca, non essendoci i bazar made in Cina dove comprare a basso prezzo, gli impianti non venivano buttati quasi mai, e quando qualche lampadina si bruciava, si provvedeva a sostituirla singolarmente. Un lavoro certosino e metodico. C’erano lucine di tanti colori; oggi la tendenza prevede impianti monocromatici, tutti blue, viola, bianchi. Raramente rossi. Talvolta gialli. Mai verdi. Chissà perché.
Ricordo le botteghe dei fruttivendoli, aperti sin dalle prime ore del mattino. Esponevano frutta di stagione, mandarini, arance, noci, finocchi, in un tripudio di colori che allietava la vista. Per fortuna, qualcuno di quei negozi ancora resiste, ma anche in questo caso prevale un’altra logica, quella dei centri commerciali e dei grandi supermercati. All’esterno non si vede quasi più nulla, quelle visioni appartengono a rarefatti ricordi di un passato lontano. Anche per le pescherie vale lo stesso discorso. Quei banchi ricchi di pesce, quell’odore pungente. Per ritrovarne qualche residuo frammento, salvo poche eccezioni, è necessario recarsi negli ipermercati. Ma non è la stessa cosa.
Ricordo gli zampognari, e qui sconfiniamo quasi nella leggenda. Bussavano a casa, li si faceva entrare senza alcun rischio o preoccupazione. Nessun timore di aprire la porta a intrusi o malintenzionati. Gli zampognari attaccavano con la classica “Tu scendi dalle stelle”, intonata con il suono inconfondibile della zampogna e del piffero. Gli si offriva un bicchiere di vino, un dolce tipico, si scambiavano quattro chiacchiere. Poi, la coppia si esibiva nella hit più gettonata, di nuovo “Tu scendi dalle stelle”, e le note, rese ancor più vigorose dal rosso tracannato d’un fiato, riempivano l’ambiente domestico fino a propagarsi all’esterno sul pianerottolo. “Jingle bell rock” non sapevamo cosa fosse: la playlist era composta dal “Tu scendi…” e, nelle rare eccezioni, anche dal “Bianco Natale”. Oggi quelle figure mitologiche, un po’ uomini un po’ montoni (per gli indumenti che indossavano e l’odore che emanavano), purtroppo non esistono più. Si sono estinti come i dinosauri, o forse, come i dinosauri, non sono mai esistiti. E restano solo una proiezione fantastica e onirica della nostra immaginazione di fanciulli.
Ricordo i dolci fatti in casa, i “turdilli” e le “scalille”. Qualcuno ancora non si rassegna a comprarli al bar, e li produce in casa (mia moglie, per fortuna) attingendo a vecchie ricette segrete. Tanti anni fa le pasticcerie non si cimentavano neppure a realizzarli questi dolci, perché in ogni famiglia nonne e mamme provvedevano direttamente in prima persona. E ognuno di noi si abituava a quel sapore, a quelle forme, a quella specifica farcitura. Miele di fichi, miele d’api, diavolina di mille colori come elemento coreografico. L’aroma dell’anice, il sapore appiccicoso del miele, l’odore del fritto della preparazione che invadeva la cucina. Niente a che vedere con quei prodotti perfetti e industriali esibiti dentro luccicanti vetrine, esposti come gioielli rari e dal sapore troppo poco familiare.
Ricordo quel Natale lì, senza avere più la certezza di averlo vissuto per davvero…