“In Italia è notte. Una notte di febbraio, stranamente troppo calda. L’inverno per pura convenzione insiste a farsi chiamare così, ma in realtà è maggio, come se fosse maggio.”
Il mio nuovo racconto noir potrebbe iniziare con un’apertura di questo tipo. Per poi focalizzare l’attenzione su una scena precisa, magari al chiuso.
“In una cella d’isolamento del carcere di Rebibbia, il corpo di un uomo penzola dalle sbarre della finestra. La luce della luna ne proietta l’ombra, allungandola e inframmezzandola con quella della grata, lungo quei dieci metri scarsi che la separano dalla porta blindata, fino ad amalgamarsi con le tenebre che avvolgono la piccola stanza. Ha usato le lenzuola come cappio, per soffocare i pochi rimorsi insieme all’ultimo anelito di vita. Si era fatto beccare come un pivellino, lui che nella sua onorata carriera di serial killer, aveva sempre prestato la massima attenzione ai dettagli, ai particolari, al non lasciare tracce. Tutta colpa di quel maledetto braccialetto elettronico che l’azienda per cui lavorava gli aveva imposto di tenere al polso. Se ne era completamente dimenticato quando, nell’ora di pausa, aveva incrociato lungo la provinciale quella ragazza bionda che chiedeva l’autostop. Senza pensarci su due volte, l’aveva rimorchiata. Tutto troppo semplice. Le presentazioni di rito, quattro chiacchiere senza senso lungo il tragitto e poi l’invito a mangiare qualcosa assieme. Erano saliti a casa sua, lei si era accomodata sul divano, lui aveva buttato gli spaghetti nell’acqua che bolliva per una aglio e olio al volo. Distrattamente, lo sguardo era caduto sul set di coltelli da cucina sistemati in bella vista nell’alloggiamento in legno lungo il ripiano della credenza. In quel preciso istante, la situazione era precipitata. Come in trance ne afferrò uno, il più grosso. Accarezzò l’impugnatura in legno, osservò la lama perfettamente affilata, indugiò sulla punta acuminata che risplendeva al sole di quella calda giornata di fine gennaio. Si avviò a passi lenti e decisi verso il salotto. Lei era sul divano, guardava la televisione. Poteva scorgerne le spalle e la nuca, avvolta da quella splendida chioma dorata. La sorprese senza che lei nemmeno se ne accorgesse. Un fendente alla gola, e poi una serie di colpi in rapida successione sul petto, alle spalle, all’inguine. Quando si sentì appagato, posò l’arma e si sedette a contemplare soddisfatto la scena. C’era sangue dappertutto. Doveva ripulire e sbarazzarsi del corpo. E doveva farlo in fretta. Sarebbe dovuto rientrare a lavoro come ogni giorno, non poteva assentarsi e rischiare qualche contestazione in azienda. Erano severi, i suoi capi. Avrebbero mandato qualcuno a controllare, sicuramente la visita fiscale se lui avesse telefonato per avvisare che non stava bene. Iniziò a sezionare il corpo di quella sventurata, ne ficcò i pezzi in due borsoni, poi pulì tutto alla meno peggio e uscì di casa. Quella sera, con calma, avrebbe eliminato ogni residua traccia di sangue. Caricò in auto i borsoni, iniziò a guidare verso l’enorme capannone aziendale dove trascorreva gran parte delle sue giornate ad imballare spedizioni. Lungo la strada di campagna, al di là delle ultime case di periferia, accostò l’auto e si disfece dei due bagagli colmi del corpo della sua ultima vittima, scaraventandoli lungo un dirupo scosceso che terminava in una sterpaglia di rovi. Non l’avrebbero mai più ritrovata. Almeno non nell’immediato. E lui poteva continuare a fingere di essere quel bravo ragazzo tutto casa e lavoro, impiegato modello della multinazionale leader nel settore delle spedizioni di acquisti online. Certo, qualche piccolo neo nella sua vita c’era stato, ma roba di poco conto. Semplici bravate adolescenziali, come quella volta che, colto da un impeto di rabbia, aveva sfregiato con il coltello a serramanico il volto della povera docente di italiano, colpevole di avergli fatto fare brutta figura davanti a tutta la classe. Ma se l’era cercata, quella stronza. E lui, fingendosi pentito, ne era uscito bene anche grazie al sostegno dei suoi genitori, che avevano accusato l’insegnante di atteggiamento persecutorio nei confronti del figlio. Col passare degli anni, poi, aveva scoperto quel suo lato oscuro, quella particolare attrazione per il sangue, quell’eccitazione che gli faceva schizzare il livello di adrenalina quando ammazzava qualcuno. Era diventato un perfezionista. Si sentiva onnipotente. Fino a quando, per colpa di quel cazzo di braccialetto, era finito tutto a puttane. L’avevano beccato, erano riusciti a ricostruire i suoi spostamenti. Lo avevano inchiodato. Ma come diavolo era stato possibile? Perché i sindacati avevano permesso quella diavoleria di meccanismo in grado di monitorare l’attività dei dipendenti? Non avevano detto che era solo per efficientare la produttività? Che non venivano lesi i diritti di privacy? Prima di impiccarsi e farla finita, l’ultimo pensiero l’aveva rivolto a quel suo amico di gioventù, quello con il quale era stato compagno di banco alle superiori fino al giorno dell’aggressione alla prof. Dopo la maturità, pur di sbarcare il lunario, il compaesano era stato costretto ad emigrare in Germania, accettando di lavorare come cavia presso un’importante casa automobilistica tedesca: doveva sottoporsi a sedute estenuanti, inalando gas di scarico per testare il grado di inquinamento prodotto dai motori delle auto. Un lavoro come un altro, a pensarci. In fondo, c’è anche chi, pur di guadagnarsi il pane, ingurgita medicinali al soldo di multinazionali farmaceutiche per verificarne effetti collaterali ed efficacia terapeutica del prodotto medico. Sempre meglio che portare un braccialetto elettronico al polso…pensò prima di lasciarsi penzolare nel buio di quella cella oscura”.
Il racconto è frutto della mia fantasia. E’ tutto inventato, al netto delle verità in esso contenute.