Era il 2001. C’erano papa Wojtyla e George Bush, Ciampi era Presidente delle Repubblica e Berlusconi a capo del governo, l’Apple lanciava l’iPod, esordiva in rete Wikipedia destinata a cambiare le nostre vite, il subcomandante Marcos era il leader degli zapatisti messicani, imperversava in Europa il virus della “mucca pazza”, Nanni Moretti trionfava a Cannes con “La stanza del figlio”, Tony Blair vinceva le elezioni politiche nel Regno Unito, a Genova si celebrava il G8 durante il quale veniva ucciso Carlo Giuliani, l’11 settembre passò alla storia per l’attentato alle Torri Gemelle di New York aprendo di fatto la stagione del terrorismo internazionale e delle guerre “umanitarie”, Osama Bin Laden e Al Qaeda, la Roma trionfava in campionato e il Milan in Champions League. Buffon veniva ingaggiato dalla Juventus, io compivo 31 anni e diventavo papà, perché nasceva Antonio. Sono trascorsi 17 anni, ma sembra passato un secolo. E come sempre accade, quando si è costretti a ricordare ci si ritrova a fare i conti con il tempo che scivola inesorabile. Facendo riaffiorare ricordi, aneddoti, circostanze, eventi. Il tutto velato da tristezza e malinconia in quantità industriali. Chi di noi non pagherebbe per riavvolgere il nastro, per tornare indietro e rivivere tutto daccapo. Il “break wedding” di Gigi Buffon con la maglia della Juve ci obbliga all’operazione nostalgia, al ripensarci giovani, a certificare che qualcosa finisce perché l’orologio, dannatamente, nel frattempo ci ha ingannati ed è andato avanti. Forse in modo troppo veloce. Non ha senso riepilogare cosa ha rappresentato Gigi per l’universo Juve, quanti trofei abbia vinto, su quali livelli sportivi e umani si sia espresso. Quanti riconoscimenti personali, quante gratificazioni per colui che è stato giustamente riconosciuto come uno dei più forti portieri di tutti i tempi. Almeno tre generazioni di sportivi e tifosi sono cresciute e maturate con lui, come era accaduto con campioni del calibro di Baggio, Maldini, Totti e Del Piero, per citare solo i più recenti. Il campionato che finisce oggi si porta con sé l’ultimo grande fuoriclasse italiano di un passato per molti versi irripetibile. Ma, al di là della vittoria del settimo scudetto consecutivo, del quarto double di fila, della conferma di uno strapotere calcistico senza precedenti, cosa significa in sé la fine di un campionato? Ognuno la vive per ciò che rappresenta; per me racchiude un anno di vita: tanti sabati sera davanti alla tv, pranzi domenicali affrettati per la partita della Juve alle 12.30, sciarpa al collo, bandiera in salotto, tuta o pigiama rigorosamente bianconeri, mercoledì di coppa in giro per locali o a navigare su internet alla frenetica ricerca della diretta di Champions, sorrisi, gioie, delusioni, rabbia, preoccupazioni. La compagnia indiretta di giocatori e giornalisti, la passione che non ti lascia mai, gli articoli, le ore notturne sottratte al sonno, le conseguenti levatacce mattutine. Oggi finisce, con la consapevolezza che tra qualche mese il campionato tornerà a farci compagnia, nelle fredde giornate invernali fino all’arrivo della prossima primavera. Purtroppo senza Asamoah, senza Lichtsteiner, forse Marchisio e, soprattutto, senza quel numero 1, quel simbolo, quella leggenda, quell’emblema, col ricordo dei brividi e delle lacrime che oggi pomeriggio hanno scandito i titoli di coda di una vera storia d’amore. Quelle lacrime che hanno, ancora una volta, inumidito la mia storica sciarpa. Ciao Gigi, e grazie di tutto!