27 maggio 2018. Una domenica che non dimenticherà facilmente, il leader dei Cinquestelle.
Prima il “nein” cadenzato in accento teutonico da Mattarella, poi la rabbia sfogata in piazza nei dintorni di Roma. E mentre lui, l’enfant prodige della politica nostrana, arringava la folla, qualcuno all’orecchio, da dietro, deve avergli sussurrato pressappoco così: “Giggino, minaccia di promuovere l’impeachment contro il Presidente! Fallo, che siamo i primi, cavalchiamo l’onda di sdegno e ci mettiamo a capo della protesta!”. “Cos’è ‘sta roba??” rispose, confuso dal clamore della gente che sovrastava ogni sussurro. “Ma nulla, dai! Sbrigati che rischiamo che qualcuno lo faccia prima di noi!”.
E Giggino così fece. Lanciò la bomba, la fece deflagrare nel pieno di una notte romana di fine maggio già densa di tensione e rabbia, le onde si propagarono rapidamente come cerchi concentrici nell’acqua di uno stagno violato dalla caduta di una roccia. La spaccatura che aveva diviso l’Italia in costituzionalisti presidenzialisti (pro-Mattarella) e costituzionalisti parlamentaristi (contro-Mattarella) si allargò ancora più in profondità, come una nuova e più devastante scossa tellurica che infierisce sul disastro già prodotto: l’ulteriore elemento divisivo si consumò tra coloro che, nei confronti dell’inquilino del Quirinale, reclamavano la corte marziale per alto tradimento, in contrapposizione a chi ne evocava un percorso accelerato di beatificazione con rapide prospettive di santità.
Lui, Giggino, rientrò a casa a notte fonda, euforico, soddisfatto, con tanta adrenalina ancora in circolo. Trovò i genitori ad aspettarlo, svegli nonostante l’ora tarda, come quando da adolescente rientrava il sabato a casa ben oltre l’orario consentito. Ma stavolta, i suoi non avevano l’aria di essere preoccupati, sembravano in verità piuttosto incazzati. “Ma ti rendi conto di cosa hai detto??? Hai proposto la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica!!!”, esordì rabbioso il padre. “Ma…ma…io…”, balbettò. “Ma tu un cazzo! Un emerito cazzo! Ti ho sempre detto di riflettere prima di parlare, di non essere impulsivo, e invece…ma ti rendi conto???”. Il padre era fuori di sé. Intervenne la madre, con un tono più conciliante: “Giggino…Giggino mio…e se quell’infame di cui ti sei fidato ti molla, perché stai tranquillo che ti mollerà, e ti ritroverai in mezzo alla strada, a noi non ci pensi? Se ci serve qualcosa, che ne so, una bolletta pagata in ritardo, un’autorizzazione al comune, una visita specialistica…non scordarti che viviamo nel Meridione…e…”. Il marito la interruppe con veemenza: “ E questo coglione si è fatto nemico addirittura il Presidente della Repubblica!!! Eccheccazzo!!! Ora tu sai cosa fai?!?, aspetti due giorni e gli chiedi scusa, sennò quant’èveroIddio in questa casa non ci metti più piede!!”.
Si avviò mortificato in camera da letto. Non chiuse occhio, ripensò a tutto, iniziò a prendere coscienza dei fatti, il rimorso lo stava divorando. Senza attendere oltre, la mattina successiva decise di chiamare il Colle per scusarsi. Le prime due volte riagganciò. Non gli venivano le parole. Stava per farlo anche alla terza, dopo aver balbettato qualcosa in falsetto, ma la voce che rispose al centralino lo riconobbe, in una fantozziana riedizione di un’Italia d’altri tempi: “Giggino è lei???”. Non poté tirarsi indietro, si fece passare Mattarella ma non riuscì a parlarci, il Presidente aveva dato disposizione di comunicare, qualora avesse chiamato Di Maio, che era a letto con un fastidioso mal di fondoschiena. Riprovò insistentemente fino a quando non riuscì ad ottenere un appuntamento; vi si recò, chiese scusa, volle avere certezza che l’episodio non lasciasse strascichi. Poi, soddisfatto e rinfrancato, prima chiamò i genitori per informarli, poi compose il numero di Salvini per fargli presente che, da fonti che non poteva rivelare, aveva saputo che se avessero spostato Paolo Savona dall’economia ad altro dicastero, Mattarella avrebbe accettato di dare il via libera al governo del cambiamento. “Ma chi te lo ha detto? Ma se c’è già Cottarelli!”, ribatté il leader leghista. “Fidati di me. Andiamo a governare!”. Riattaccò, compiacendosi del ruolo di stratega che il destino gli aveva cucito addosso. “Chi era?” chiese a Salvini un suo collaboratore. “Quel fesso di Giggino, che ancora non ha capito niente di quello che sta succedendo…”