L’isola che non c’è è un sogno chiamato serie B. Un approdo faticoso al culmine di una traversata durata 15 anni. Onde alte e minacciose, burrasche, tempeste e naufragi in un mare aperto infestato di squali. L’isola che non c’è, stavolta c’è. Conquistata con sudore, sacrificio e dura battaglia. E’ la vittoria di una squadra e di una città intera, del suo desiderio di riscatto, della voglia irrefrenabile di affermazione, di presenza a certi livelli. La riprova è giunta da Pescara, con 10mila tifosi impazziti di gioia nel supportare i propri beniamini. Cosenza non è città di serie C, anzi per molti versi è già città di serie A. Al momento la B è comunque un ottimo compromesso, fermo restando che nessun risultato deve essere precluso e nessun obiettivo messo da parte. L’alba del primo giorno da neo-cadetti è tutta rossoblu, nel sole che sorge da dietro i monti della Sila e si spegne nel mar Tirreno. Tra lupi ululanti e, per il momento, appagati e sazi.
Ciascuno di noi, malato di calcio, ha un ricordo legato a imprese epiche. Nel giugno del 1988, quando i lupi riacciuffarono finalmente la serie B dopo un quarto di secolo, non avevo ancora compiuto 18 anni. Collaboravo con “Magico Cosenza”, coltivavo sogni giornalistici ambiziosi, trepidavo, come solo un adolescente riesce a fare, per le gesta dei vari Ciccio Marino, Castagnini, Lombardo, Urban, Padovano, Bergamini, Lucchetta e De Rosa. Verso la fine di quei meravigliosi anni ’80, il futuro appariva radioso e ricco di aspettative e successi. Non c’erano i cellulari, lo stadio rappresentava l’unica vera occasione di svago, scrivevo i miei articoli con la mitica Olivetti Lettera 22, utilizzavo il fax e le partite, in trasferta, le immaginavo ascoltando la voce di Milicchio dalla radiolina portatile a batterie. Sono trascorsi trent’anni, eppure la magia è rimasta la stessa. Ieri sera, non a caso, l’emozione è stata fortissima. Perché quando la squadra della tua città, quella città che ti ha dato i natali, quella per la quale hai litigato e quella che tante volte ti ha fatto incazzare fino al punto da promettere a te stesso di fuggire via, ebbene quel nome composto da tre sillabe, a sentirlo pronunciare provoca brividi inenarrabili.
Cosenza è in serie B. E ancora faccio fatica a realizzare che è tutto vero. La serie cadetta è un patrimonio da custodire e difendere, non scontato, tutt’altro che banale. E’ l’occasione giusta per veicolare nel panorama nazionale la nostra identità, la nostra cultura, il nostro stile di vita. Oggi, rispetto a 30 anni fa, è cambiato tutto. Internet, i cellulari, le paytv, i computer. Rimane intatta la passione, l’orgoglio, il senso di appartenenza.
Un po’ di tempo fa, in una città del nord, ascoltando il mio inconfondibile accento, un tizio che non conoscevo mi chiese di dove fossi. “Cosenza”, risposi. “Sa, in passato ero un ultras e spesso mi sono imbattuto nella tifoseria della vostra città: avete un pubblico splendido, uno stadio da serie A e una città bellissima. Vi auguro di tornare presto in serie B, e lì che meritate di stare”. Quelle parole mi fecero commuovere, avrei voluto abbracciarlo, mi limitai a sorridere un pò imbarazzato, annuire malinconicamente e stringergli la mano.
Oggi, quel tifoso di cui non ricordo il nome è stato accontentato. E con lui tutto un popolo. Sulla nostra pelle di cosentini, restano impresse le emozioni di una notte a Pescara e di un sogno che è appena iniziato.
C’mon Wolves!!!